QUANDO A SCUOLA SI UCCIDE LA LETTURA

I dati parlano chiaro. I libri non si comprano. I libri non si leggono. Le librerie chiudono, il settore dell’editoria affoga assieme ai mondi possibili, ai sogni e al futuro. Qualsiasi tentativo di intervento sembra non trovare una valida risposta. Le varie fiere del libro, ultimo baluardo a difesa, stendono il red carpet agli scrittori più o meno in voga, incensandoli, lodandoli e imbrodandoli fino a che le luci non si spengono, impietose, sui libri accatastati.

Lettori pochi, davvero pochi. In questo ormai, si azzerano pure le differenze sociali. L’ignoranza regna sovrana. Eppure sui libri gli italiani sono abituati a posare gli occhi sin dalle elementari.

Possibile mai che, in tanti anni, la scuola dell’obbligo non abbia prodotto lettori?

Stai a vedere che è proprio la scuola il vero problema. Stai a vedere che chi dovrebbe far amare i libri uccide la lettura.

Un po’ come accade ai ragazzi che frequentano le scuole cattoliche. I migliori mangiapreti nascono là.

Ebbene, qui lo dico e qui non lo nego. Tutto questo panegirico per affermare che sì, l’assassino non è il maggiordomo, come nei vecchi gialli, ma la scuola. Recidiva, senza vergogna e, pare, senza pentimento.

Basta entrare ogni giorno in classe, qualsiasi classe di qualsiasi Istituto o Liceo. Il programma di Italiano spazia dai primi scritti in lingua volgare fino a quelli dei giorni nostri. Vengono presi brani e brani dei più importanti autori, dei più significativi e geniali, vengono posizionati sul tavolo operatorio, aperti e squartati come fossero cadaveri.

Fiumi di storia della Letteratura, con l’interpretazione di questo e di quello, analisi del testo, parafrasi, scansione in sequenze sempre più raffinate, regole grammaticali e figure retoriche così complicate da scoprire, che neppure all’università, elucubrazioni mentali spacciate per verità, le parole prese e fatte a pezzi, senza che un solo singulto, un solo palpito di emozione si liberi intorno.

E poi studio, tanto studio, ore ed ore ad analizzare parole stanche. Oggi stranamente, più di prima. Regole grammaticali, sequenze di ogni genere, esercitazioni talmente farraginose, che pure i migliori insegnanti debbono andare a verificare la risposta corretta sui libri appositi. Un po’ come i cruciverba che hanno le soluzioni nelle ultime pagine.

Poi magari, spunta uno in gamba come Benigni, che legge La Divina Commedia, la spiega, la interpreta e lascia le folle ammirate lì dove i professori avevano calato il nerbo del brutto voto.

Ci si meraviglia che ancora oggi Dante abbia davvero qualcosa da dire.
Bisognerebbe avere il coraggio di affermare che così non va.
C’è un modo diverso di insegnare Italiano, un modo tutto nuovo eppure così antico. Quello che piace a me. Quello che piace a tanti altri colleghi, bravissimi e competenti, che sarebbe bello diventasse virale.

Come fare?

In primo luogo propongo di liberare il testo letterario, i brani delle antologie, dalle catene dell’interpretazione e presentarlo così, nudo e crudo, in classe.
A parlare sarà il romanzo, forse un capitolo, forse due. O una poesia, o una commedia o una tragedia. Il professore dovrà saper leggere, riuscire a far vibrare le parole. Dovrà declamare l’Amleto e renderlo presente lì, tra quelle quattro mura dell’aula, che diventeranno il castello di Kronborg. Dovrà permettere a Mirandolina di aggirarsi con la sua arguzia ed astuzia a solleticar la curiosità degli studenti.

Sfogliare le pagine non come se avesse davanti il bugiardino di un medicinale, ma per dare vita alla parola e alle sue storie.
Che tristezza, ogni anno sempre più, accorgersi che la maggior parte degli studenti non sa neppure lontanamente leggere, tranne casi eccezionali che vengono trattati da miracolati. Come faranno, loro, ad interpretare un testo scientifico o filosofico o matematico se non sanno poggiare la voce con grazia sulla lingua scritta?
Una didattica nuova, diversa, coivolgente, dove le energie da spendere non siano inferiori rispetto al normale programma, anzi!
Una didattica che non abbia timore di confrontarsi con gli autori e l’ambiente che gira attorno.

Una didattica che non abbia paura delle parole, che se ne riappropri senza fare della scuola il loro obitorio. Dove tutto deve essere scoperta, ricerca analisi, studio, ma di parole vive. Dove vien voglia di scoprire cosa c’è dietro, chi ha scritto, in che epoca e in che ambiente. E allora gli studenti non dimenticheranno più, ad esempio, la povera Nedda che stringe tra le braccia la figlioletta morta e che ringrazia la Madonna per essersela presa ed averle evitato le sofferenze atroci che subiscono le donne povere.

E allora apriranno le pagine dei lori libri chiedendo: “Professoressa, che viaggio facciamo oggi? Dove ci porta?”

Una scuola aperta, che insegna a ragionare, imparando dalla storia, dai nostri poeti, scrittori, eroi e naviganti.

Insomma, per concludere, i professori siano uomini e donne di cultura, capaci di far volare la parola e con essa pure il futuro dei giovani. Siano presenti nei luoghi del sociale, siano persone che non si lasciano imbrigliare e mettere ai margini del dialogo politico, poco rispettati economicamente e poco considerati. Una vergogna tutta italiana, questa, perché è la cartina di tornasole di come la cultura scolastica venga considerata.

Chissà che, alla fine, senza che nessuno obblighi, gli studenti non entrino in una libreria perché hanno imparato che anche l’anima ha bisogno di nutrimento per non morire.

Prof.ssa Maria Rosaria De Simone