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L’Italia e i fondi per la ricerca: il parere di una ricercatrice

 

Promuovere e investire in ricerca è strategico per il sistema del paese: parte della spesa pubblica è utilizzata a tal fine e anche il singolo può contribuire con donazioni o mediante canali strutturati come ad esempio il 5 per mille. Ma come vengono utilizzate queste risorse? Quale è la situazione del nostro Paese? E come si colloca l’Italia rispetto agli altri Paesi dell’Europa? Da fonte ISTAT, l’Italia nel 2015 ha investito nella ricerca l’1,25% del PIL, comparando questo dato con quello di altre nazione europea si evidenza la minore intensità di investimento in Italia. Ad esempio in Francia, nello stesso periodo, la percentuale investita è stata del 2.26%, mentre in Germania del 2.90%, valori comparabili a quelli degli Stati Uniti, notoriamente uno dei maggiori investitori mondiali in ricerca e sviluppo. Per quanto riguarda il numero del personale addetto al settore, i dati ISTAT riportano un numero di ricercatori pari a 246.423, numero che conferma l’investimento che conferma l’investimento inferiore del nostro paese rispetto a Francia e Germania che rispettivamente risultano avere un totale di ricercatori pari a 422.452 e 603.911. Abbiamo deciso di intervistare Aldina Venerosi, che svolge attività di ricerca da 20 anni presso l’Istituto Superiore di Sanità di Roma, in modo da conoscere il punto di vista di chi vive questa situazione non da spettatore, ma da protagonista.

Lei, personalmente, come vede e come vive la situazione della ricerca in Italia?

La situazione della ricerca in Italia è molto difficile. Il mio punto di vista è sicuramente parziale, ma la discussione su questo tema che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni permette a tutti di valutare come il nostro paese non consideri al primo posto investire nella cultura e quindi anche in ricerca.

Quanto questo ha inciso e incide nel suo lavoro e nella sua carriera?

Ciò che ho detto prima lo dico proprio perché ho visto modificare il mio lavoro giorno dopo giorno. In particolare, le risorse per attuare esperimenti di ricerca di base, ovvero, non finalizzate alla risoluzione di un problema di sanità, ma a scopi maggiormente conoscitivi di fenomeni biologici, sono molto diminuiti. Nel mio campo si fa sperimentazione animale ed è ormai molto difficile partecipare alla competizione per ottenere finanziamenti per la ricerca individuale se nei propri obiettivi non vi è una ricaduta sulla produzione di informazioni traslabili nelle terapie o nello sviluppo di tecnologie utili alla salute. Questo presuppone avere buoni dati preliminari derivanti dalla ricerca di base che però non è possibile ottenere tramite risorse interne all’Ente in cui lavoriamo, perché il nostro finanziamento ordinario è risotto all’osso. Il funzionamento generale e anche molti stipendi delle persone che lavorano in Istituto da molti anni sono finanziati da progetti di ricerca che vengono ottenuti dall’attività degli stessi ricercatori e non dallo Stato.

Come crede che potrebbe essere migliorata la situazione?

Con una inversione netta di tendenza. La ricerca va finanziata di più e attraverso varie linee di finanziamento che presuppongano la necessità di alimentare differenti aspetti che giocano ruoli importanti in questo campo. Il primo è la possibilità di aggiornamento, molto del nostro lavoro dipende dalla capacità di attingere alle pubblicazioni internazionali e quindi essere abbonati a molte riviste, poter fruire liberamente di questa fonte di informazioni e vitale per alimentare la creatività e l’adeguatezza della progettazione sperimentale. Lo stesso vale per la frequentazione di Congressi nel mondo. I fondi di missione nella pubblica amministrazione sono stati tagliati dalla spending review, e non si è fatta nessuna differenza per un settore che vive sulla scambio di informazioni a livello internazionale.

Specificatamente all’interno del suo campo di ricerca, di cosa sente maggiormente la mancanza?

Una programmazione della ricerca a livello nazionale. L’ultimo programma nazionale di ricerca sanitaria è stato pubblicato nel 2008, a me pare un fatto assai grave. Inoltre vi è un livello totalmente insufficiente di raccordo tra le attività di ricerca svolte dalle varie aree (biomedicina, agricoltura, scienze naturali, scienze sociali, economia eccetera) per cui non si ha la percezione di una direzione di investimento del paese nei vari settori e di come possiamo contribuirvi, ciascuno dal proprio campo di ricerca. Si sono fatti tentativi di proposta, ma vi è una apatia dei governi che ci accompagna da anni che è sempre più difficile non interpretare con la scelta miope di non credere che cultura e ricerca siano un potenziale per migliorare le condizioni di tutti.

I bandi di ricerca italiani a cui possiamo accedere hanno tematiche che non sono sempre soddisfacenti. Sono molto orientati alla clinica e poco alla ricerca biologica, che è invece fondamentale per esplorare nuovi campi applicativi per la salute sia in termini di prevenzione che di terapia. Oltre a questo i bandi sono strutturati secondo criteri altamente competitivi che rischiano di generare un loop implosivo, premiando sempre i gruppi più bravi e non permettendo una crescita delle capacità di ricerca più diffusa. Inoltre i fondi sono pochi e quando la coperta è corta qualcuno rimane al freddo e non è necessariamente un ciuco!

La seconda cosa è lavorare in strutture adeguate, sia dal punto di vista dell’edilizia che delle attrezzature. Nel nostro Ente abbiamo un parco di attrezzature abbastanza obsoleto e camminando per i corridoi è evidente la necessità di una ristrutturazione complessiva.

La terza cosa è quella di avere a supporto del nostro lavoro una amministrazione adeguata. A parte i vincoli burocratici in cui l’amministrazione pubblica ci ingessa, vi è la necessità di creare degli uffici specialistici che ci sostengano nell’accesso dei programmi di finanziamento internazionale. Questo comporta competenze scientifiche per aiutare a creare le reti europee necessarie per competere ma anche amministrative, i Bandi di ricerca europei sono molto remunerativi ma anche difficili.

Negli ultimi anni si parla spesso della famosa “fuga dei cervelli”, ovvero l’emigrazione di giovani laureati talentuosi che cercano all’estero le opportunità di fare carriera nella ricerca che, presumibilmente, l’Italia non da. Crede che sia vero? Consiglia ai ragazzi di emigrare all’estero?

Io credo, ma è un’idea generale del mondo della ricerca, che un’esperienza all’estero si un momento importante per la crescita di un ricercatore. Apre una visione diversa del proprio lavoro, soprattutto a chi si è formato in Italia che non è caratterizzata ancora in modo rilevante da un ambiente internazionale. D’altra parte perché dovremmo spendere cifre dell’ordine di centinaia di migliaia di euro a testo per la formazione di un ricercatore e poi mandarlo a lavorare all’estero, questo è chiaramente un non senso. Alcune mie amiche e amici sono all’estero a lavorare, persone che ho conosciuto all’università e che non sono più tornate indietro. Il fenomeno esiste, ma è strumentalizzato e mal gestito. Due i fattori che ritengo più importanti, la mancanza di cicli di assunzione regolare (il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione ha colpito di pari passo la rete di ricerca), i livelli stipendiali che rimangono a livelli molto bassi per la maggior parte della carriera prevista dal contratto e non sono competitivi a livello internazionale. Un italiano che lavora all’estero, in Europa o negli stati uniti ha la possibilità di usufruire di laboratori ben attrezzati e di ricevere uno stipendio superiore a quello che percepiamo in Italia. Perché dovrebbe tornare?

di Valentina Mancino