Intervista all’attore italiano Claudio Botosso

 

Come hai scelto questa professione?
La verità è che non l’ho scelta,ma mi ha un po’ scelto, perché quando arrivai a Roma non avevo veramente l’intenzione di fare l’attore. Ero curioso… e una sera un amico mi invitò a vedere delle prove in un teatro (il Teatro Olimpico) e il buio del palcoscenico, questa luce che a un tratto illuminava il palcoscenico stesso, l’attore usciva e parlava… questo mistero mi aveva incuriosito per cui ho iniziato a informarmi, a fare una scuola di recitazione. Fondamentalmente l’ho scelto per curiosità.

Qual è stato il tuo percorso artistico?
Ho iniziato come tanti con una scuola di recitazione, di mimo, di canto. Poi ho fatto – come è usuale – un provino, l’ho vinto e ho fatto il mio primo spettacolo, si chiamava “Risveglio Di Primavera” di Wedekind per la regia di Memè Perlini. Erano gli anni ’70, il periodo dell’avanguardia teatrale; poi dopo ho fatto teatro come fanno tutti i giovani fino a quando ho fatto quattro provini per Avati che stava cercando un ragazzo giovane come protagonista del nuovo film che si chiamava “Impiegati”. L’ho vinto ed il film ebbe un successo sia di critica che di pubblico, di fatti andammo al festival di Cannes e mi tolse dall’anonimato, per cui ho iniziato a quel punto una carriera cinematografica e ho avuto l’opportunità di lavorare con Fellini, con Bellocchio, con Risi, Bruno Bozzetto ‘il grande cartoonista’ e una serie di registi. Da lì ho cercato di fare sia teatro che cinema e televisione allo stesso tempo.
Dato che hai lavorato per tanti anni in questo ambiente, cosa ne pensi del panorama cinematografico e teatrale dell’Italia contemporanea?
Io non sarei molto negativo, anche perché per quanto riguarda il cinema un paio di anni fa l’Italia ha vinto un oscar con “La Grande Bellezza” di Sorrentino. Molti film italiani vengono apprezzati, distribuiti, comperati all’estero; è il caso di registi come Garrone o , tra quelli un po’ più grandi e della mia generazione Salvatores, anche lui un premio Oscar, Tornatore… Certo non è un’industria solida come sembra quella americana, che però è un altro pianeta, oppure quella francese. Forse la cinematografia francese ha maggiori attenzioni da parte dello Stato, del governo; ritengono il cinema una forma, oltre che d’arte, di propaganda, cosa che il nostro governo non ritiene opportuno fare. Per quanto riguarda il teatro, anche qui abbiamo delle eccellenze che secondo me non sfigurano assolutamente in rapporto al teatro inglese che forse è, per antonomasia, il più prestigioso; o anche in rapporto a quello americano: Lavia, Servillo, Latella… Tutti propongono degli spettacoli a volte anche discutibili da un punto di vista estetico. Il problema è che dal punto di vista delle strutture il teatro italiano si  trova di fronte a una grande problematica perché c’è poca tutela nei confronti di chi lavora per il teatro: gli attori, i registi… Non vengono più rispettate le regole, i contratti…questo è un problema vero. Aldilà di tutto questo, ci sono sempre delle punte di eccellenza che danno prestigio al nostro teatro.
Secondo te perché i film di produzione americana o inglese hanno più successo rispetto a quelli di altre produzioni?
Perché c’è un maggiore investimento di denaro e una maggiore attenzione al particolare e perché credo che le scuole cinematografiche inglesi, americane e anche francesi siano più aggiornate. Questo nel senso che uno studente di cinematografia negli Stati Uniti non studia solo cinematografia ma anche sociologia, psicologia, antropologia, poesia; la sua preparazione è dunque più organica e contemporanea.
Qual è la cosa che preferisci di questo mestiere?

[sorride] Banalmente mi viene da dire che questo è un mestiere privilegiato, ti dà la possibilità di soddisfare una passione che a volte richiede molta fatica e molta disciplina, però ti dà delle grandi soddisfazioni che possono essere il riconoscimento da parte della critica, del pubblico sia fisico che per quanto riguarda il talento e la bravura. Fondamentalmente è un privilegio fare questo mestiere.

 E invece la cosa che ti piace di meno?
Non c’è qualcosa che non mi piace, se posso fare una critica ribadendo quello che ho detto prima, una critica alla mancanza di rispetto nei confronti dell’artista… in generale in Italia c’è questo problema: le istituzioni rispettano poco il lavoro dell’attore come quello del regista e quello dello scrittore; questo tende a creare gruppi di potere che non fanno entrare nessuno, che emarginano.Mi è difficile dire una cosa che non mi piace di questo mestiere perché i malesseri e le inadeguatezze e le mancanze istituzionali non valgono in confronto alla soddisfazione che mi suscita il mio lavoro. È un po’ come con i figli, nonostante le litigate, come fai a dire cosa non ti piace?
Qual è il ruolo che hai recitato con più piacere?
Sono vari, quello a cui sono più affezionato devo dire che è quello del primo film da protagonista che ho fatto con Avati in “Impiegati”, un film di grande successo davvero… Devo dire che sono affezionato a tutti i personaggi che ho recitato, perché quando reciti un personaggio gli dai una parte di te: parte della tua emotività, della tua psicologia, della tua fisicità; quindi diventa come un fratello o un amico a cui vuoi bene e per cui è difficile dire quale preferisci. Certo, ho fatto personaggi e film più belli e altri meno belli o che mi convincevano di meno, anche in teatro. Fondamentalmente però rimani sempre affezionato ai tuoi personaggi, perché gli dai una parte di te che non è scritta, fai vivere questo personaggio. In teatro è la stessa cosa… Potrei sceglierne quattro o cinque sia in teatro che in cinema, ma non mi va di fare queste differenze soprattutto alla parte di me, della mia psicologia che ho dato ai personaggi che ho interpretato.
di Vittoria Botosso e Lila Casamirra