Una civiltà alla frutta

Intervista a Dorotea Salomone, insegnate che ha visto la scuola italiana sprofondare. 

Per quanti anni è stata docente e a che livello di istruzione

Le prime esperienze di insegnamento risalgono al mio primo anno di iscrizione all’università. A quei tempi, i presidi, su segnalazione del Provveditorato regionale agli studi, avevano facoltà di sostituire i docenti costretti ad assentarsi con supplenti che ne avessero i requisiti, per garantire la continuità didattica. Ho quindi iniziato a insegnare in alcune scuole medie inferiori della mia provincia, ma sono stata ben presto chiamata presso vari licei classici della mia città. Ho continuato a insegnare con la continuità che mi era permessa dai miei impegni, prima universitari e poi accademici, dedicati soprattutto alla ricerca. Infine, in anni recenti, sono stata assunta da un liceo privato, che gode di ottima fama, per realizzare un progetto (poi fallito) di riqualificazione dell’insegnamento. Si tratta di un arco di tempo assai lungo, che mi ha consentito di fare esperienza diretta della parabola discendente della scuola italiana.

Qual è il livello di preparazione al liceo, in genere?

Mi associo, sotto tutti i profili, alla dolente denuncia sulle carenze degli studenti italiani presentata dai 600 docenti universitari al Presidente del Consiglio, alla Ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiani; inefficacemente contestata da varie parti. Personalmente, sono rimasta colpita da una precisa corrispondenza tra la mia esperienza e quanto affermato dai docenti: moltissimi tra i ragazzi che accedono all’università non hanno le conoscenze di base che un tempo erano imprenscindibili per la promozione alla terza elementare (previo superamento dell’esame al termine del primo biennio delle elementari). Non è un modo di dire (non dico la seconda o la quarta elementare, bensì la terza) né, tanto meno, un insulto; è un dato di fatto, confortato da prove provate, per chi lo voglia assumere. E non mi si parli delle prove Invalsi che, secondo altra fonte, attesterebbero gli alti livelli delle conoscenze degli studenti italiani. A parte il fatto che, a quanto mi consta, gli esiti sono sempre tra i più bassi in Europa – e tralasciando anche le ricerche che dimostrano la percentuale impressionante, tra gli italiani in generale, di persone che non comprendono un qualsivoglia testo provino a leggere –, vorrei far presente le modalità secondo cui mi risulta talora vengano svolte tali prove: i professori passano tra i banchi a fornire le risposte.

Quando è iniziato questo degrado generale nelle scuole e in quale misura il governo ne è responsabile e in quale lo sono gli insegnanti? 

Il degrado è iniziato con le riforme della seconda metà degli anni Novanta. Poi si è andati via via peggiorando. Ora siamo al delirio. La responsabilità non è attribuibile a un Governo in particolare tra quelli che si sono susseguiti, bensì a precise linee di politica dell’istruzione sostanzialmente condivise a prescindere dagli schieramenti. Ma al di là delle valutazioni politiche, che andrebbero comunque fatte, la verità è che si è tentato di sostituire, molto malamente, al tradizionale modello di “formazione” globalmente inteso – alla Bildung tedesca, per intenderci – il modello di “istruzione” iperspecialistica e settoriale anglo-americano. È stata una rivoluzione epocale; per fare un solo esempio: nessuno studente di oggi – elementare, medio, superiore, universitario – sarebbe in grado di servirsi dei libri di testo di vent’anni fa. Intendo dire che i ragazzi non sono in grado di capire la lettera del testo. Non parliamo degli esami “annuali” che si affrontavano in qualsiasi facoltà … I livelli dell’insegnamento, dei libri, delle verifiche vengono abbassati di anno in anno e, parallelamente, si alzano le valutazioni: mi sarebbe difficile quantificare la mole di insufficienze gravi che, per voto di consiglio, diventano sufficienze in pagella in sede di scrutinio. Una parola sui manuali; ho spesso occasione di consultare libri di testo per i vari livelli scolastici: sono pieni di errori di ogni tipo. Problema che si riscontra anche, drammaticamente, in quello che una volta era considerato l’italiano standard: quello dei giornalisti. Gli insegnanti di valore sono disperati; gli altri sono omogenei al sistema. Cito Umberto Galimberti: “I mali della scuola sono arcinoti, ma non si vogliono vedere nonostante la loro evidenza. Il primo è costituito dagli insegnanti, molti dei quali o non conoscono la loro materia o non la sanno comunicare”.

Quanta influenza ha il contesto familiare e per quale motivo, secondo la sua esperienza, i genitori contestano gli insegnanti?

Il contesto familiare ha enorme rilievo. Non voglio generalizzare; non parlo delle molte famiglie che non hanno obiettivamente la possibilità di rendersi conto della situazione o che, comunque, non avrebbero strumenti per operare sinergicamente con la scuola. La mia critica va invece a quei genitori, e sono molti, che delegano alla scuola responsabilità educative fondamentali che sarebbero innanzitutto di loro pertinenza. Alla scuola vengono avanzate pretese assurde e incoerenti: che i figli siano comunque promossi, che non abbiano compiti a casa, che non si diano voti … Basti dire che tra i “motivi familiari” che giustificano, di per sé, assenze anche di una settimana dai corsi regolari è ormai in voga “la settimana bianca” della famiglia. Ma le pare il modo di responsabilizzare i ragazzi anche nella prospettiva di una futura attività lavorativa?

Ci sono possibili contromisure?

No. Non ne vedo i presupposti: è una crisi di civiltà. Ce ne sono state altre nella storia. Comunque, per risponderle più compiutamente, faccio ancora riferimento a quel progetto a cui accennavo prima e dal quale mi sono dimessa, dopo oltre un anno, per la manifesta impossibilità di raggiungere gli obiettivi. Impossibilità dettata da vari fattori che – in maniera franca sebbene impopolare – posso così sintetizzare: appoggio nominale ma non fattivo della dirigenza, che mirava a un’operazione di facciata e non di sostanza; assoluta mancanza di collaborazione da parte delle famiglie; ignoranza invincibile degli studenti accompagnata da proporzionale arroganza e, infine, titubanza, incomprensione, talvolta fastidio da parte di molti colleghi. Si potrebbe pensare che si tratti di un esempio isolato, ma ne parlo, invece, come di un caso paradigmatico.

Secondo lei, questo abbassamento generale dell’istruzione a che porterà?

All’inconsapevolezza di gran parte della popolazione. A una sperequazione sociale sempre più accentuata, all’ingiustizia, all’abuso. Quel che sta succedendo non è casuale.

Trova, positivo o negativo che tanti studenti studino e lavorino all’estero?

Per quanti ne hanno la possibilità sicuramente sì. Per il nostro povero Paese, non direi. Non mi si fraintenda; io stessa ho studiato anche all’estero, ma non era una fuga imposta dall’impossibilità di farlo qui.

 

Bianca Bagnasco 3H, liceo Vivona