Eremiti postmoderni?

“Condividi”: è su questo pulsante che ognuno di noi clicca ogni giorno, postando in rete una foto tra amici, un tramonto, il testo di una canzone. Condividiamo contenuti apparentemente leggeri con un pubblico la cui vastità è direttamente proporzionale alla popolarità di chi posta. E soprattutto curiosiamo tra i contenuti postati da altri, da coloro che di premere il pulsante “condividi” hanno fatto un lavoro. Seguiamo Youtubers e bloggers, guardiamo rapiti immagini, sapientemente architettate per piacere proprio a noi, che li ritraggono sorridenti proprio nel luogo che avremmo voluto visitare, ascoltiamo le loro parole pronunciate mentre bevono una bibita il cui logo è ben messo a fuoco, li emuliamo nello stile e nelle passioni. Cerchiamo, insomma, di avere qualcosa in comune con loro. Diventano degli idoli ai quali sembra legittimo sacrificare ore e regalare visibilità e adorazione. Il trattamento che in passato era riservato alle stelle del mondo della musica e dello spettacolo è lo stesso che ricevono oggi Youtubers e bloggers. Tacciati dai più critici di aver raggiunto il successo mediatico semplicemente parlando ad una videocamera e fotografandosi decine di volte ogni giorno, le nuove star dimostrano di possedere un talento ben più proficuo: conoscono i gusti del loro pubblico, o meglio, li determinano: loro sono perfettamente in grado di farlo.

Ma come nasce l’Internet-dipendenza? Come può uno strumento tanto utile come la rete trasformarsi in un’ossessione? Il meccanismo è simile a quello innescato dal gioco d’azzardo: divertimento ed emozioni forti posti fra parentesi nella quotidianità, attività da praticare in tempi limitati e luoghi definiti si trasformano, soprattutto fra i giovani più insicuri, fragili e influenzabili, in “dipendenze senza sostanza”. La maggior parte del tempo e delle energie, infatti, viene spesa nell’utilizzo della rete, spazio che è ovunque e in alcun luogo, alla ricerca di popolarità e consenso. Ma soprattutto, i giovani si ammalano della sindrome di Capitan Uncino per appagare il proprio narcisismo: un individuo tende a parlare di se stesso nel proprio profilo sui social e attraverso le chat circa l’80% delle volte. Scrivendo di sé nel cervello si libera dopamina, un neurotrasmettitore legato alle sensazioni di piacere; l’egocentrismo continuamente stimolato da chat e social crea benessere e dunque dipendenza. Il fenomeno è a tal punto dilagante da essere stato posto all’attenzione della comunità scientifica: si parla oggi di disturbo da abuso della rete (Intenet Addiction Disorder – IAD).

Vietato demonizzare il web. La rete di grandezza mondiale non è altro che uno strumento nelle mani degli utenti. Nella rete convergono il meglio e il peggio dei visitatori: accanto a giornali online e siti di informazione, applicazioni di messaggistica istantanea e piattaforme che diffondono iniziative benefiche esistono cyberbullismo, truffe, violazioni della privacy, “giochi” dell’orrore.

L’ultimo esempio di moda distruttiva tra i giovani ha già causato la morte di 130 adolescenti. Si chiama Blue Whale, balenottera azzurra, ed è un gioco che invita i partecipanti ad affrontare una serie di assurde prove per 50 giorni, come guardare film horror per un giorno intero o incidere sul proprio corpo una balena azzurra. L’ultima sfida lanciata dal gioco contiene una provocazione mortale: cercare l’edificio più alto della propria città e saltare giù. “Il senso è perduto”, ha twittato una delle ultime ragazze a seguire fino all’ultimo le regole del gioco. Basta questa frase, da sola, a raccontare una generazione complessa e per molti aspetti incompresa e incomprensibile. Una generazione cresciuta in una dimensione nuova, più vasta, in cui è difficile difendersi da chi intende controllare le menti influenzando i gusti e le scelte di chi non conosce i complessi meccanismi che tale mondo nasconde. Una generazione tanto attratta dal mondo del web da sacrificargli passioni e momenti che non torneranno, in una ricerca disperata di un senso condotta da persone sole in un luogo inesistente.

Allora sì, il senso non può che apparire perduto.

Francesca Lanni, IV C