Fin dove si può spingere la bontà… (Amor vincit omnia)

Tornai a casa per la cena, il cibo mi era improvvisamente indigesto, non riuscivo a mandarlo giù, mi andava quasi di traverso: mi si bloccavano i pensieri per ciò che mi era accaduto prima. Mia madre notò fulminea la mia faccia sconvolta, mi chiese subito quale fosse il problema, ma io, facendo finta di niente, le dissi con nonchalance che tutto andava bene. Non potevo far preoccupare anche lei: aveva già molti problemi con papà, non sapeva neanche come fare ad arrivare a fine mese e, aggiungere ai suoi problemi quotidiani quelli miei inutili, sarebbe stato un appesantimento che non mi sarei mai perdonato. Notai che mi osservava con aria ansiosamente preoccupata: non volevo incrociare il suo sguardo o sarebbe finita male, ma, evidentemente, fu inevitabile. Mi chiamò e mi abbracciò e fu proprio in quell’istante che scoppiai a piangere davanti al suo volto, mentre le sue braccia mi cingevano e mi avviluppavano a lei fortemente: avrei voluto restarci per tutta la vita in quell’abbraccio. Poi piano piano si mise calma a sedere, mi prese la mano e con un filo di voce mi sussurrò: “Tesoro mio, cos’è che non va? Non devi aver paura di parlarmi, io ci sarò sempre per te!”. A quelle parole un nodo mi soffocò la parola in gola per alcuni istanti, poi, riuscii a parlarle: “Ecco, vedi……. Ho alcuni problemi a scuola con i miei compagni”. “Tesoro, ma perché non me ne hai parlato prima?”, mi disse, interrompendo il mio tentativo di articolare un discorso qualunque. “Hai già tante cose a cui pensare ed io non sono stupido, lo capisco bene, non ti posso caricare anche dei miei piccoli problemi!”. Di rimando lei: “Ognuno di noi ha tante cose a cui pensare, ma quando c’è di mezzo il bene dei propri figli, tutto passa in secondo piano!”, a quelle parole mi commossi, poi mi ripresi, mi diedi un certo contegno e riuscii a dire: “Gr… grazie. A scuola alcuni miei compagni si sono approfittati di me, è da circa un anno che mi forzano a far loro tutti i compiti e io non mi sono mai potuto sottrarre alle loro soperchierie…” . “Ma perché?”, mi chiese mia madre, sconvolta in viso, nei cui lineamenti intravidi, come disegnato un senso di colpa, per non essersene accorta prima e subito pronto risposi: “Non devi sentirti in colpa, sono stato io a voler nascondere tutto…mi hanno bullizzato a tal punto da farmi eseguire tutti i loro compiti, specialmente, quando, i professori prendevano provvedimenti rigorosi per il loro cattivo comportamento in classe”. “Amore…”, sentii mia mamma rattristarsi e l’abbracciai, cercando di tranquillizzarla, poi continuai: “Ero stanco di quella situazione, mi sentivo oppresso da questi ragazzacci sconsiderati, balordi, così, un giorno ebbi la brillante idea di non usare la mia intelligenza in loro favore, bensì contro di loro”. “Ma, ma… cos’hai fatto?”, mi interruppe spaventata; “Lasciami raccontare”, le dissi per rassicurarla, “Cercavo ovunque un’occasione per poter fargli provare, anche solo per un minuto, l’umiliazione e la sofferenza che mi avevano inflitto per un intero, interminabile anno, ma non riuscivo a capire quale fosse il modo più opportuno per attuarlo”. Mentre mia mamma ascoltava queste mie parole, mi accorsi che era fortemente preoccupata e, scongiurava con i gesti delle mani che non avessi realmente fatto qualcosa di cattivo, ma io, imperterrito, continuai: “Questo pomeriggio, però, l’occasione mi si è offerta puntuale! Stavo andando in biblioteca per la ricerca di scienze, quando d’improvviso vidi uno di loro che si divertiva a girare e rigirare per la stradina con il motorino, sgommando sulla ruota posteriore, facendo uno schiamazzo d’inferno all’intorno. Feci finta di non vederlo, la rabbia che la sua sola presenza mi provocava era qualcosa di indescrivibile. Chinai il capo, finché un tonfo secco mi fece sussultare: lo vidi steso sull’asfalto, bloccato dalla sua stessa moto, che gli era piombata addosso. Cercava con gli occhi imploranti qualcuno che lo potesse aiutare, ma non vedeva nessun’altro, che me solamente: era rassegnato, disperato, lo vidi scoppiare in lacrime, proferì il mio nome e sentii un “mi merito di morire qui come un cane, sì, me lo merito davvero!”, ma mentre chiudeva gli occhi contornati da una smorfia di dolore, riuscii a togliergli la moto di dosso e chiamai un’ambulanza col cellulare. Lui mi guardò piangendo, senza capire il motivo per cui avessi fatto tale gesto, ed io allora gli dissi: “Ho aspettato con ansia un’occasione che avrebbe potuto, anche solo in minima parte, farti provare il dolore che provo io da un lunghissimo anno e, adesso, vedendoti steso lì a terra impotente, avrei potuto gustare finalmente la mia vendetta, ma non sta a me fare giustizia, applicare la legge del taglione, a me spetta solo aiutare il prossimo, anche se questi è stato la causa di tante indicibili sofferenze…”. Mi guardò, mentre le lacrime continuavano a rigare il suo volto incredulo e spaventato, riuscendo solo a proferire: “Non ci sono parole, perdonami”, mentre l’ambulanza irrompeva, a sirena spianata, nella stradina deserta e veniva caricato su una barella…

Naomi Donatuti I A Liceo Scientifico – Istituto “G. Carducci” – Comiso (RG)