Go, Chuck go, go!

Ci deve essere stato un gran da fare in paradiso negli ultimi tempi: dopo il saluto di tre titani come David Bowie, Glen Frey e Prince nel 2016, questo 2017 ci ha dato il benvenuto con un altro triste addio. È morto, infatti, lo scorso 18 marzo a San Louis, città che lo aveva visto nascere nel lontano 1926, l’immenso Chuck Berry, dopo averci fatto sognare per più di 70 anni con la sua rock’n’roll music. Un sound come pochi, uno stile inconfondibile, che ha contribuito a dare respiro e vita alla musica e alla società pop-rock della seconda metà del nostro novecento. Musica, che dopo Chuck , Elvis, Little Richard e Jerry Lee Lewis, non è stata mai più la stessa: ha cambiato faccia per sempre. Tanto da ispirare una seconda generazione di musicisti, nei decenni successivi, che ha visto la luce grazie al bacino roteante di Elvis e alla chitarra elettrica di Chuck. “Se volete chiamare il rock’n’roll in un altro modo, chiamatelo pure Chuch Berry”, affermerà non a caso John Lennon; quel John che precedentemente aveva altresì riconosciuto il primato incontrastato di Elvis nella musica dei Beatles (“Non ci sarebbero stati i Beatles senza Elvis”). Attraverso una chiave semplice, diretta, immediata e innovativa, quale quella della musica, quella del rock’n’roll, Berry ha costruito le fondamenta della musica popolare moderna: primo fra tutti a trattare argomenti familiari alla “gioventù dorata” del tempo (“You never can tell”,“School days”, “Sweet little sixteen”), che si dimenava libera e incurante dei padri bacchettoni al suono magico del rock’n’roll (“Johnny B goode”, “Let it rock”, “Roll over Beethoven”, “Rock ‘n’ roll music”), Brian Wilson non avrebbe scritto nulla per i Beach Boys (“Surfin’ safari” è identica nota per nota a “Sweet little sixteen”) né Keith Richards per i Rolling Stones: e John Lennon non sarebbe stato quel tanto famoso “Working class hero” del rock inglese. Per non parlare poi delle ripetute covers dei Beatles quali “Roll over Beethoven” e “Rock ‘n’ roll music”, cantate rispettivamente da George Harrison e John Lennon. Una personalità, una vita, insomma, quella di Berry, molto copiata, molto osannata, anche, ma non tutta rosa e fiori. Era cresciuto nelle prigioni, non cantando spensierato nelle chiese. Poi, una volta uscito, aveva fatto di tutto, continuando quella di musicista come seconda attività. Ma come nelle migliori leggende, fu Muddy Waters, il re del blues, a indirizzarlo verso Leonard Chess, straordinario discografico di Chicago, che gli fece incidere il 21 maggio 1955 la sua prima hit, “Maybelline”. E come tutti i geni dell’arte, il buon Chuck aveva le sue ombre: uomo difficile, rabbioso, solitario, non aveva mai voluto avere una band e anche quando gli altri lo avevano aiutato (Lennon, Richards), non aveva mai abbassato la guardia , convinto come era di essere il re, il più grande, quello che aveva aperto la porta a tutti gli altri, non solo della musica, ma anche del cinema, a pensarci bene. “Credimi, è perfetta!”, così Quentin Tarantino infatti risponde allo scetticismo di Uma Thurman circa la canzone (“You never can tell”) da ballare per la scena (divenuta cult) di Pulp Fiction (1994).
Così la sua musica intramontabile è riuscita a incidere il passato, il presente e… anche il futuro, come mostra la citazione del simpatico Michael J.Fox in “Ritorno al futuro” quando, in una delle ultime scene, egli improvvisa Johnny B Goode in chiave questa volta hard-rock. “Penso che ancora non siate pronti per questa musica… ma ai vostri figli piacerà”, dice. Perché Chuck era uno che, con i suoi riff di chitarra, con i suoi passi danzanti un po’ pazzerelli (“duck walk”, ripreso dagli AC/DC), con il suo sorriso sincero, forse il futuro lo conosceva di già… Go, Chuck, go, go!
Chiara Donati – Classe 4D