Salveremo l’ambiente… cambiandoci meno

L’inquinamento prodotto dall’industria tessile è secondo solo a quello prodotto dal petrolio; il danno provocato dall’industria tessile è tale da poter essere visibile anche dallo spazio. Le immagini satellitari mostrano che la superficie del Lago d’Aral, Kazakistan, si è ridotta di un 10% rispetto agli anni Sessanta. E pare che la colpa sia della monocoltura del cotone, usato nel 40% circa dei nostri indumenti, che ha deviato gli affluenti che lo alimentavano. Se si sommano anche la lavorazione e la tintura, prima che un paio di “semplici” jeans siano realizzati si arrivano a consumare circa 11.000 litri d’acqua. Inoltre le piantagioni di cotone, che coprono meno del 3% delle terre coltivate, consumano la maggior parte dei pesticidi e insetticidi dell’agricoltura mondiale. Altra cosa da mettere in conto all’industria tessile è il consumo energetico per il trasporto: il cotone viaggia più o meno 12000 km dal campo di raccolta fino al negozio.
Una volta esistevano toppe e rammendi, ora, al primo cenno di cedimento – o al primo cambio di moda-, il capo di abbigliamento finisce nella spazzatura. Noi viviamo infatti sotto la spinta del fast-fashion, ovvero utilizziamo del vestiario a poco prezzo da poter rinnovare ad ogni cambio di stagione o delle tendenze della moda; tutto ciò comporta un enorme spreco di risorse e un altissimo livello d’inquinamento. Alcuni stilisti, come ad esempio Tom Cridland, vogliono tornare a produrre capi trentennali, invertendo così la tendenza della moda flash. Ma a cosa può essere dovuto un tale spreco di vestiti? Sicuramente abbiamo potuto notare che, tra il 1995 e il 2014, il prezzo dei capi d’abbigliamento è cresciuto assai più lentamente di quelli di tutti gli altri beni di consumo, toccando il record nel Regno Unito dove, davanti a un incremento del 49% del prezzo medio delle merci, quello dell’abbigliamento è diminuito del 53%. Questo crollo ha attirato a sé e poi conquistato numerose folle di consumatori, innescando così l’infernale processo della moda flash.
In Germania l’associazione Greenpeace ha segnalato che dal 2000 al 2014 la produzione degli abiti è raddoppiata: ogni consumatore medio acquista circa il 60% in più di capi ogni anno, in più la durata media dei capi si è dimezzata, producendo così montagne di rifiuti.
Analizzando da vicino la situazione italiana, a fronte di circa 2,2 milioni di indumenti di seconda mano, quelli buttati annualmente sono 70 milioni. Per questo il riciclo non può essere considerato la soluzione, poiché i mercatini dell’usato non vendono abbastanza merce e quindi non posseggono posto per altri indumenti, e perché ancora non è possibile riciclare le fibre al 100%. Le aziende devono quindi pensare a capi duraturi nel tempo che possano sostituire quelli usa e getta.
Gli ambientalisti chiedono quindi ai produttori pratiche industriali più sostenibili. L’associazione Altromercato organizza, oramai da anni nella città di Milano, l’edizione italiana della Fashion Revolution Week, dedicata alla moda etica.
A Berlino, Germania, è stato fatto un esperimento con un distributore automatico di magliette a 2€ il pezzo. Una volta inserita la moneta, prima che il distributore erogasse la t-shirt, sullo schermo appariva un breve filmato su come era stato possibile produrre un capo d’abbigliamento così a basso costo. Il filmato mostra le allucinanti condizioni di sfruttamento in cui si trovano a lavorare molte donne dei paesi più poveri, costrette a lavorare fino a 16 ore al giorno e con una paga di 13 centesimi l’ora. La maggior parte delle persone, dopo aver assistito al video, posta davanti alla decisione se donare i 2€ o comprare la maglietta, sceglie la prima opzione.
Laura Cappelli – Classe 2B