Ambasciator (non) porta pena – Novella

Le vele erano spiegate al vento. Il mare era una tavola increspata di stelle, mentre la mitica meta si avvicinava, magicamente, sempre più: Costantinopoli, con quei suoi colori vivaci e odori fortissimi, con quella sua luce e quel suo violento tepore. Tutto sembrava veramente gridare ai naviganti: “Verso quella città, verso quella città!”
Correva l’anno 1347. Il nostro Boccaccio, dalla prua della nave, già si preparava mentalmente il discorso da fare al cospetto dell’imperatore Giovanni V Paleologo.
Era stato chiamato dalla corte a tenere un pubblico discorso con l’imperatore e i suoi sudditi: “Carissimo Giovanni Boccaccio, sarebbe per la nostra corte tutta un immenso onore riceverla come benigno ospite nel nostro palazzo reale a Costantinopoli. La prego, venga al più presto!” Questo il contenuto della fulminea lettera che ricevette Boccaccio: una missiva doppiamente singolare, perché non firmata e soprattutto perché simile a una richiesta di aiuto più che a un invito formale, specialmente vista la chiusa sibillina. Da chi allora era partita veramente l’idea di chiamare in Oriente proprio lui, Giovanni Boccaccio, un incallito novelliere, insomma un letterato? Alla corte bizantina, dove ora come ora stranamente non c’era poesia, non c’erano danze, non c’erano banchetti? Dove tutto insomma era avvolto dal lugubre manto del divieto e dell’austerità?
“Abbiamo bisogno di aiuto, Semiramide”, aveva detto in preda alla tristezza Andronico III Paleologo, il figlio dell’imperatore, alla sua balia.
“Hai presente questo libro di Pamprepio?” chiese ancora il ragazzo, “Ecco, c’è voluto un mese per trovarlo senza farmi scoprire da mio padre”.
“Avete rischiato tanto, padrone”, commentò la donna.
“Lo so, fin troppo. Ma è davvero così peccaminoso in codesta corte interessarsi alla letteratura?” disse. “Sai una cosa, Semiramide?” aggiunse, poco dopo, emozionato “Uno di questi giorni dovrebbe arrivare una persona che potrebbe salvarci.”
“Chi, padrone?”
Andronico Sorrise. “Si chiama Boccaccio, viene dall’Occidente ed è diventato famoso per aver scritto delle novelle a carattere profano e divertente. Sono stato io a scrivergli”.

* * *

“Eccoci in Oriente, signore!” Boccaccio era ancora perso nei suoi pensieri tortuosi, quando gli venne incontro un bambinetto desideroso di vendergli delle pietre preziose.
“Comprerò sicuramente questo zaffiro, ma il giorno della mia partenza, piccolo!” gli sorrise. Vide una bancarella imbandita con alcune spezie, profumatissime, e ne rimase subito attirato. Il proprietario, molto anziano, stava dormendo. Boccaccio se ne uscì con un rumoroso “Oh!” che fece svegliare di soprassalto il vecchio mercante.
“Tu devi venire dall’Occidente” lo fece voltare all’improvviso una voce di ragazzo. “E devi essere un letterato” continuò quest’ultimo, “altrimenti non mi spiego perché tu tenga sotto braccio un papiro”. Boccaccio si sentì preso per le calcagna e fu costretto ad annuire.
“Allora certamente devi essere Giovanni Boccaccio!”, il ragazzo s’illuminò nel volto.
“Come fai tu a sapere chi sono?”
“Bazzico molte bancarelle qui del porto che importano manoscritti da tutta Europa e… sono venuto a sapere di te e del libro di novelle che stai scrivendo, che in parte ha già iniziato a circolare”.
“Senti”, continuò, tirandolo in disparte, “hai per caso ricevuto un invito dall’imperatore?”
“Sì, anche se non esplicitamente firmato”, rispose Boccaccio, incuriosito.
“Ecco, a dire il vero il firmatario sarei io: mio padre è l’imperatore”disse il ragazzo
Boccaccio rimase alquanto stupito: “Perché non è stato tuo padre a scrivermi?”
“Perché lui odia i letterati, e la corte è diventata invivibile. Per questo ogni volta che posso, vengo qua al porto, a distrarmi…” Si fermò. “Senti, scusa la domanda a bruciapelo”, aggiunse molto colloquialmente “ma ho sempre desiderato chiederti questo: hai mai conosciuto Dante Alighieri?”.
Boccaccio sorrise amabilmente, con una punta di rammarico. “Purtroppo no, ragazzo mio. Però conosco alquanto bene la sua Commedia, tanto da poterti recitare perfino alcuni versi a memoria. Se ben ricordo di lui circola anche un aneddoto, che descrive la finezza assoluta della sua incredibile personalità.” Ammiccò, sorridente.
“Si narra “, continuò in modo sempre più solenne, “che il nostro Dante fosse solito sedersi su un sasso vicino al duomo di Firenze. Un giorno, un messo, per volere dell’imperatore, dopo aver percorso la grande distanza che separava il suo signore dalla Toscana, gli domandò: “Qual è il miglior piatto?” come per stuzzicarlo. E Dante rispose: “L’uovo”. Dopo un anno di lotte intestine tra gli abitanti della dilaniata Firenze, il messo tornò e, sorpreso Dante a meditare sempre sullo stesso sasso, gli chiese, ancora a bruciapelo: “Con che?”. E Dante rispose: “Col sale”.
Il ragazzo rise della presenza di spirito del sommo poeta.
I due neo amici che condividevano l’amore per la letteratura, per la pace e per la morale integrità, s’intesero con un dolce sguardo.

* * *

“Perché tarda così tanto a venire?” diceva frattanto spazientito e rabbioso l’imperatore di Costantinopoli mentre aspettava il figlio per cena.
“Mi perdoni, padre” disse Andronico, arrivando trafelato nella sala da pranzo reale.
“Si può sapere dov’è che te ne vai sempre i pomeriggi? Entro in camera e non ci sei, ti cerco e sei fuori: ho sentito dire che bazzichi le vie del porto. Non ci pensi mai alla cattiva fama che ti trascini dietro agendo così? Cosa penserà di te la gente? Un inetto amante delle lettere, ecco quello che pensano”.
“Vi sbagliate, padre. Non è affatto così. E poi che cosa c’entrano le lettere, se portano pace, magia e bellezza? Tutte cose che, ahimè, non noto qui intorno a me”. Il padre si alzò dal tavolo stizzito. “Ebbene, basta! Ne ho abbastanza di te e di questo tuo amore per le lettere. Vattene in camera tua e senza cena. Semiramide, accompagnalo!”
Quella sera, Andronico pianse amaramente osservando il cielo carico di stelle, mentre invocava il nome dell’amico Boccaccio, perso in non so quali osterie.
Il giorno seguente lo vide fuori dal palazzo. Gli andò incontro abbracciandolo ma subito lo avvertì di andarsene.
“Ho pensato”, ribatté Boccaccio, “che uno di questi giorni dovrei presentarmi a tuo padre, dopo tutto sono stato invitato”.
“Hai ragione, ma cosa gli dirai? Guarda che è un tipo difficile…”
“So io come comportarmi. Hai detto o no che hai bisogno del mio aiuto? Vuoi ristabilire la pace nella corte? Ci penso io. Lasciami due giorni di tempo”. Andronico lo guardava commosso per l’emozione. Si separarono.
Due giorni dopo, era l’ora del tramonto, Boccaccio si presentò al palazzo. Aveva con sé quegli zaffiri che gli aveva consigliato il ragazzino per strada: alla fine li aveva comprati. Entrò nella sala gremita di cortigiani intenti ad ascoltare un’adunanza dell’imperatore e assorti in grande mestizia, rigorosamente in silenzio: non una nota musicale né un passo di danza. Accanto all’imperatore stava Andronico, taciturno.
“Buonasera, signore” esordì trionfante Boccaccio, “Posso offrirle un pegno della mia devozione?”
“Chi è mai lei, zoticone?”
“Mi chiamo Giovanni Boccaccio, autore del Decameron e fervido letterato”.
“Fuori di qui!”
“Sia mai, signore. Non me ne andrò finché non la avrò fatta ravvedere circa il potere della letteratura”.
“Puah! La letteratura è soltanto per sognatori invecchiati”, ribatté l’imperatore. “Non è specchio di nulla, non insegna proprio niente e a me non può affatto interessare, né ora né mai!”
“Messere, mi permetta di raccontarle una storia che forse invece non le dispiacerà”. L’imperatore batteva spazientito il piede a terra con uno sguardo funesto e indolente.
“Una storia”, proseguì Boccaccio con un’espressione via via sempre più seria, “di un sottile imporre di silenzio fatto da una gentil donna a un cavaliere. Vedrà come questa non sia altro che la proiezione letteraria (e azzeccata) della realtà”. L’imperatore sembrava non seguire il filo del suo discorso e lo guardava perciò incredulo.
“Parlo della novella di madonna Oretta, donna gentile e costumata e ben parlante, la quale venne invitata da un cavaliere ad essere scortata a cavallo di una delle belle novelle al mondo. Ma il povero cavaliere mancava di arte della parola, di guizzo, di ingegno e si fermava a più riprese tanto da costringere madonna Oretta, ormai ravveduta, a pregarlo di farla scendere… dal cavallo. A cambiare, cioè. Così il cavaliere,inteso il motto, mise mano ad altre novelle e quella non finita lasciò stare e nessun più seppe…”
“Come andò a finire?” lo interruppe quasi nel contempo l’imperatore.
“Vede signore, questo suo commento mi fa intuire che il mio racconto le è interessato. Non si sarà forse anche lei come madonna Oretta per caso “ravveduto”? Sa una cosa? Forse leggere qualche volta in più in questa corte, o, addirittura, scrivere, di più, il tutto unito alla danza e a qualche musica leggiadra, non sarebbe poi tanto male, no?”
L’imperatore non proferì parola, rimanendo orgoglioso e altero fino in fondo, ma rimase comunque stupito e ammise, forse, di essersi infine sbagliato. L’intento diplomatico di Boccaccio era andato in porto: egli scelse sapientemente la novella particolare di madonna Oretta con l’unico intento pacifico di farlo ravvedere circa la letteratura. Così come infatti la donna ha fatto marcia indietro, ovvero, si era ravveduta della sua scelta sbagliata sul cavaliere, ugualmente l’imperatore si era ravveduto (pur senza farne troppa mostra) del proprio atteggiamento ingiusto sulla letteratura.
Da quel giorno non proibì più ai cortigiani e al figlio Andronico in primis di dilettarsi con la lettura. Così la gioia e il sano divertimento tornarono ad essere presenti alla corte dell’imperatore.
In tutto questo, Boccaccio ha avuto il merito strepitoso di (ri)portare a Costantinopoli la pace e l’antico rispetto per due arti invero europee: la letteratura e… la dolce diplomazia!

C. Donati, L. Paciotti, G. Comanducci & C. Savelli
Classi 4D, 3C & 4E