L’ultima volta? – Racconto

Girò la chiave nella toppa, e dopo lo scatto secco, resuscitato direttamente dalle lande della memoria, spinse il pesante portone. Si aprì con un cigolio e una lama della calda luce del pianerottolo fendette il marmo del soggiorno; e a Berto tornò in mente quante volte, anni prima, fosse stato fermo proprio in quel punto, trafficando con le chiavi per trovare quella giusta fra le tante che Giuditta gli continuava ad aggiungere al mazzo. Lei possedeva il dono innato, non sempre utile, di moltiplicare le serrature con cui aveva a che fare e, di conseguenza, aumentare il peso del mazzo. Entrò con un amaro sorriso.
L’ampio soggiorno stava ancora lì, nella penombra, coi suoi spettri di poltrona o di divano avvolti in sudari impolverati, coi suoi scaffali prima pieni di libri e adesso pieni di ragnatele. Era già tanto che ci fossero, quelle suppellettili. Si trattava dello scheletro di ciò che era stato ai bei vecchi tempi, come Berto era solito dire quando parlava coi suoi amici di vecchia data, eppure conservava qualche residuo dell’atmosfera che in quegli anni si respirava là dentro.
Berto premette l’interruttore con un gesto meccanico, solo per ricordarsi troppo tardi che la luce era staccata, e che lo sarebbe stata ancora per qualche giorno, fino a quando il portiere del palazzo, dopo le vacanze natalizie, non avrebbe riattivato il quadro elettrico. Andò verso lo sgabuzzino, nella flebile speranza che ci fosse ancora quello che lui e Giuditta avevano messo lì di riserva.
Lungo il corridoio Berto oltrepassò numerose porte di legno dipinto, tutte chiuse – ma in quel titanico mazzo che teneva in mano c’era ogni chiave, ne era certo – finché non giunse in fondo. Per trovare la chiave giusta e per infilarla nella minuscola toppa andò a tentoni, ma la memoria gli giunse in aiuto.
In capo a tre minuti Berto si trovava seduto sulla stessa poltrona su cui si era seduto migliaia di volte, il caminetto di fronte a lui scoppiettante e una cospicua dose di ciocchi appoggiati lì di fianco. A quella calda luce tremolante gli fu facile abbandonarsi ai ricordi felici, ma come la spada di Damocle – ed era proprio Giuditta che amava usare quest’espressione – pendeva su di essi quell’altro ricordo.
Era la sera di Natale anche quel giorno lì, come adesso; erano passati esattamente undici anni.

Le moderne lampade in vetro e acciaio comprate pochi mesi prima gettavano la loro luce sulle pareti ornate di quadri. Le librerie erano mantenute in un ordine quasi maniacale, visto che spolverare e mettere a posto quei volumi era un passatempo fra i preferiti di Giuditta; anche quel giorno il fuoco ardeva nel camino, ma il suo crepitio non suonava ancora del tutto malinconico alle orecchie di Berto che, seduto in poltrona a leggere un libriccino di poesie, percepiva ancora qualche nota di allegria in esso.
“Berto, la cena è quasi pronta! Perché non smetti un attimo di leggere e vieni qui in cucina a farmi compagnia?”
Berto non sapeva come rispondere. Aveva tanti pensieri e progetti per la testa.
“Tesoro, non lo ripeterò un’altra volta; visto che è l’ultimo Natale che festeggiamo in questa casa potremmo anche passarlo in serenità, non ti pare?”
Berto non riuscì a trattenere il sospiro che da un po’ aveva dentro. “Hai ragione” disse chiudendo il libro.
La cucina, arredata con molta eleganza, era a pieno regime. Nel forno nuovo di zecca cuoceva chissà quale arrosto, mentre il ripiano grande quanto una piazza d’armi era quasi invisibile sotto la miriade di cibi e ingredienti che ogni tanto la figura esile di Giuditta sollevava, mescolava, gettava in pentola, tagliuzzava, riducendone il numero.
Quando Berto entrò nella stanza, lei stava girando il mestolo dentro a quello che anche una persona con poca fantasia avrebbe paragonato a un calderone da strega, mentre con l’altra mano calava delicatamente dei pezzetti di cipolla, inghiottiti dall’acqua in una miriade di sommessi plof.
“È faticoso, ora che non possiamo più avere la servitù” ansimò lei mentre abbandonava il mestolo e si metteva ad affettare dei porri. “Ma devo dire che cucinare è più divertente di quanto mi aspettassi”.
“Ne sono contento” disse Berto, che, a disagio in mezzo a tutto quel daffare, s’era messo in un angolino. “Comunque i miei amici di cui ti dicevo mi hanno assicurato che ci lasceranno in pace fino ai primi di gennaio. Tanto per allora saremo già in mezzo all’Atlantico, immagino.”
Lei continuò imperterrita ad affettare quei porri. “Immagini bene”. E fu in quel momento che il campanello suonò, sgradevole intruso fra i familiari rumori della cucina. Berto uscì dalla stanza.

Non aveva mai più rivisto sua moglie, se non in quei brevi attimi in cui lui, a terra col naso sanguinante e un paio di uomini in uniforme nera che gli incombevano sopra, la intravide divincolarsi fra le braccia di altri due fascisti. Lei uscì da quella porta, e a differenza di come raccontano i libri, non si voltò a cercarlo. Berto continuava a ripetersi che non ne aveva avuto il tempo, ma quel ricordo era come un pezzetto di carta aperto troppe volte, che iniziava a sgualcirsi e a sbiadire, e le fibre della carta si deformavano alterando le proporzioni di quanto c’era scritto sopra.
Berto non aveva mai avuto il tempo di salutare sua moglie; sarebbero dovuti partire a giorni per l’America, ma evidentemente Giuditta era finita da qualche parte in Europa centrale per colpa di qualche suo antenato di origine ebraica, e tuttora risultava dispersa. Il più grande dolore di Berto era l’incertezza di sapere se l’avrebbe rivista un giorno oppure no, e la speranza che gliene derivava era velata di un dolore tremendo.
Finché avesse avuto vita, per Berto il Natale sarebbe stato il giorno in cui aveva visto per l’ultima volta sua moglie.
Lorenzo Paciotti – Classe 4E