Racconto di Natale

L’orologio batteva la mezzanotte, quei lenti rintocchi mi agitavano. Erano circa due ore che ero lì, immobile, a fissarmi allo specchio, la notte tra la Vigilia e il giorno di Natale non abbassava il mio narcisismo. Fissavo in modo attento la mia immagine riflessa, soffermandomi sui miei occhi, di un blu così scuro da sembrare nero, il perfetto contrasto con i capelli biondo platino, lo sguardo si fissò sul riflesso del mio bieco sorriso. Quanto ero bello… Dopo aver consolidato questo mio pensiero decisi di uscire nella grande terrazza che la casa dei miei mi offriva; accesi la mia sigaretta e mi misi a fumare mentre osservavo le decorazioni delle case vicine. Quella vista mi disgustava. Odiavo tutto, le luci mi disturbavano, gli alberi, compreso quello che i miei si ostinavano ad addobbare ogni anno, mi mettevano addosso un indescrivibile senso di malessere e i presepi poi… ah, inutili. I miei genitori amavano il Natale, io no, io lo odiavo.
Mi distesi su una delle tante sdraio che erano perennemente presenti nella nostra terrazza e, con la sigaretta in bocca, mi misi ad osservare le persone in strada; erano tutti felici, tutti si scambiavano baci e regali. Vidi molta gente che usciva dalla chiesa, ahimè, vicina a casa mia. Dovevano avere appena finito la celebrazione di quello che chiamano il Veglione, provai una grande voglia di imprecare, non so, mi divertiva, ma decisi che quella gentaglia non meritava di sentire la mia voce.
Sentii suonare il telefono, appoggiai la sigaretta sul tavolino accanto alla mia sdraio e entrai a rispondere: erano i miei che, utilizzando inutili parole come “amore” e “tesoro”, mi avvertivano che non sarebbero tornati prima del pranzo di Natale perché si sarebbero fermati a dormire da mia nonna, la madre di mia madre. Mi auguravano inoltre il buon Natale, aggiungendo che Dio sarebbe stato sempre con me. Dio? Ma quale Dio… io non ci credevo in Dio, l’unica persona in cui io credevo era me stesso. I miei si raccomandarono che mettessi il Bambino nella capannuccia. Risposi controvoglia e riattaccai, non ricambiai gli auguri, tanto – che importava? – erano solo parole. Svogliato e riluttante mi diressi all’enorme presepe, che occupava metà del tavolo che avevamo nel soggiorno, e, prendendoLo dal piccolo giaciglio di paglia che i miei avevano amorevolmente preparato dietro alla capannuccia, adagiai il Bambino nella piccola culla tra i suoi genitori. Mi stupii di me stesso. Avevo compiuto quel gesto, che ormai spettava a me da anni, da quando mia nonna si era ammalata e i miei genitori trascorrevano a casa sua la notte di Natale per farle compagnia, in modo naturale, come se non fosse un obbligo imposto; lo feci senza una risata di scherno per quella piccola statuina che mi ritrovavo tra le mani e senza facili ironie.
Non diedi peso a quel gesto considerato da me inutile, guardai l’orologio: le una e mezza. Tornai in terrazza, mi diressi al tavolino ma la sigaretta si era ormai del tutto consumata, ne presi un’altra, la accesi e tornai in contemplazione delle persone in strada; la folla davanti la chiesa era scemata leggermente ma, per essere le una e mezza della mattina del giorno di Natale, molta gente affollava le strade, molti bambini e ragazzi si rincorrevano in modo scherzoso, vedevo che tutti erano felici. Un alito di vento, gelido e graffiante, sferzò il mio volto e spense la sigaretta. Non ne avevo più. Gettai la cenere giù dal balcone e mi misi a fissare la Luna, cercando di capire cosa avesse di speciale quella notte.
Improvvisamente, verso le due, nuvole di un bianco pallido coprirono la non meno pallida Luna come un leggero velo da sposa, e la neve cominciò a scendere silenziosa e tranquilla dal cielo; bastarono cinque minuti, tutto si trasformò in una potente bufera e fui costretto a rientrare, per la seconda volta, in casa. Una volta dentro chiusi la vetrata che separava il soggiorno dalla terrazza, mandai un messaggio al mio migliore amico e me ne andai in camera mia. Accesi la luce, aprii l’armadio e, messomi dinanzi al più grande specchio di tutta la casa, ricominciai a fissare intensamente il mio riflesso. Improvvisamente, mentre stavo osservando il perfetto taglio dei miei occhi, il mondo scomparve: mi sentivo come se la mente mi avesse riportato indietro nel tempo, ed effettivamente rividi le scene dei due Natali passati.
Scorsi me e la mia banda di amici due anni prima quando, nella notte di Natale, ci divertivamo ad andare davanti alle chiese e imprecare nelle maniere più offensive e assurde che ci venissero in mente, e poi correvamo via, ridendo come degli stupidi.
Sentii un brivido corrermi lungo la schiena ma, sforzandomi, continuai a tenere gli occhi chiusi; così rividi anche il Natale dell’anno precedente.
Sentii nitidamente lo squillo del mio cellulare, come se qualcuno mi stesse chiamando in quel preciso istante nella realtà, e vidi me stesso prendere il telefono in mano, rispondere e trattare male mia nonna, vidi quando riattaccai e andai in cucina a bere, mi vidi richiamare la nonna, dirle che a Natale mi interessava solo ricevere i soldi con cui avrei potuto comprarmi sigarette e chissà cos’altro.
Improvvisamente mi ripresi. Aprii gli occhi, stavo sudando. Mi guardai intorno come se mi trovassi in un luogo a me sconosciuto e non nella mia stanza, mi buttai sul letto e presi il telefono.
“Alessio, mi sento strano. Sto male, mi sembra di impazzire.” Avevo scritto prima ad Ale, il mio migliore amico. Lui lo aveva letto, ma non aveva risposto. Guardai nuovamente l’ora e vidi che erano le quattro; ciò stava a significare che ero stato quasi due ore in quello stato di trance. Decisi, nonostante fosse tardi, di mandargli comunque un SMS, “Auguri Alessio, ti auguro un Buon Natale.” Rilessi tre volte il testo prima di inviarlo, quel messaggio non sembrava scritto da me, mi ricordavo di quelli che avevo mandato ad Ale i Natali degli anni precedenti, pieni di imprecazioni. Quest’anno gli avevo fatto veramente gli auguri. Lui mi rispose immediatamente “Sì, Anto, stai proprio male! Comunque Buon Natale anche a te.” Sorrisi. Prima di posare il cellulare però decisi di fare una chiamata, composi lentamente il numero e chiamai. Rispose una voce stanca “Amore, è successo qualcosa?” chiese. “No, nonna” risposi, “volevo solo augurarti un Felice Natale.” Non potevo vederla, ma percepii il suo sorriso. “Sapevo che prima o poi ti saresti ricordato di me, Buon Natale, tesoro.” Riattaccai, era tardi e avevamo entrambi bisogno di dormire. Mi spogliai e mi infilai nel letto. Mi accorsi solo allora, riflettendomi nello specchietto che avevo appeso alla parete, che stavo sorridendo, per davvero.
Laura Cappelli – Classe 2B