Jackie: un “vestimento” carico di…

Ci sono alcuni casi in cui gli abiti fanno da film (o addirittura fanno “il” film), trasmettendo emozioni, molto di più delle persone. In una scena di una pellicola uscita recentemente, una donna vestita di rosa (un colore guarda caso così innocente, fanciullesco e femminile) viene inquadrata a più riprese focali, mentre cammina verso il proprio maestoso letto matrimoniale; mentre sta piangendo sommessamente; mentre gocce di lacrime bagnano il pavimento al suono dei suoi taciti singhiozzi. Questa donna cerca lentamente di sfilarsi le calze color carne, velate di sangue; di lavarsi il viso, le mani, sotto la doccia, dove le sue dolorose lacrime possono almeno fondersi con l’acqua. Questi vestiti sporchi di sangue, questo cappellino rosato: così dolce, così fine, sono entrambi forse simboli di un’epoca davvero finita per sempre? Questa donna è Jacqueline Kennedy (Natalie Portman), la moglie del famoso e amato presidente americano assassinato il 22 novembre 1963. E questo addio così atroce e improvviso l’ha sconvolta: ancora le sembra di stringere tra le mani la testa senza vita di Jack, di ricomporre i pezzi, come di un puzzle diabolico, del suo cranio, nella speranza di vedere di nuovo il suo allegro sorriso. Cinque giorni dopo la morte di Kennedy, con l’intervento di Theodore H. White, giornalista di “Life”, Jackie porterà a termine la propria catarsi spirituale, attraverso un resoconto dettagliatissimo, profondo, a volte crudo, a volte sognante, dei fatti di Dallas. Tutto questo il film “Jackie” , per la regia di Pablo Larraìn, ripercorre: la fortissima rievocazione sentimentale e storica di un avvenimento che ha cambiato la storia e il mondo intero per sempre ma soprattutto la vita di Jackie stessa. Come un po’ il celebre frammento saffico che afferma che “la cosa più bella è ciò che si ama” e che laddove c’è una netta separazione tra gli amanti si può supplire con il dolce ricordo, ugualmente questo film può essere considerato come un “canto della memoria” anche se scarnificato, ridotto agli eventi essenziali: alla narrazione alterna ma continua e lineare e al tema fondante del dolore, della devozione, del coraggio di andare avanti, della dignità e del sogno della protagonista-guerriera. Alla maniera di “La vida es sueno”, tutto il film appare però un po’ come avvolto da un’aura mitica di apparente finzione: dalle scene registrate dalla BBC sulla famiglia Kennedy, ai discorsi con il reverendo, per non parlare degli abiti di Chanel, raffinatissimi ma sontuosissimi, simbolo di estrema vacuità. Sembra realmente che siano gli abiti (per i quali è valsa non a caso la candidatura agli Oscar) a parlare di più, a “fare” di più il film : in questo pellicola storica sì ma più che altro “vestimentaria”, il regista tenta di addentrarsi audacemente nella vera vita dei Kennedy, nella vera vita di Jackie, ma non ci riesce: gli abiti ricercati sono sempre lì, i sorrisi idilliaci dei video rimangono, Camelot (il musical che amava alla follia Kennedy) trionfa. Ma (malgrado tutta questa apparente attenzione barocca per la finzione) il film stesso a modo suo trionfa: come lentissimo ma assai concentrato canto della memoria di una donna al proprio uomo. Laconico, per certi versi. Anche troppo distaccato e monotono, forse. La Portman, va detto, non si allarga troppo in fatto di grandi emozioni. Ma soprattutto, anche molto ma molto lento. 100 minuti sembrano davvero durare un’eternità. Ma la cosa sorprendente rimane comunque questa: in questo film la lentezza non è un gran difetto. Perché meglio di qualunque altro sermone ecclesiastico o testimonianza scritta, quest’opera cinematografica descrive la vera natura del dolore, che è lentissimo a digerirsi, se ci si pensa bene. Perché soffrire è una lunga, lenta, anzi lentissima, dura prova. Ma bisogna pur soffrire, forse, se non si vuole diventare dei manichini. Come quello che osserva in una scena del film la protagonista. Perché l’abito non trionfi sul corpo. Perché la finzione e il sogno non trionfino sulla vita vera, sull’amore vero. Come ci racconta Jackie sinceramente, tra una sigaretta e l’altra… Un film gradevole, ma senza troppe pretese, incapace di scatenare (e sguinzagliare) nello spettatore emozioni forti quali il riso o il pianto. Tutt’al più un disincantato sorrisetto, al suono delle note di Camelot. Ma ci accontentiamo.
Chiara Donati – Classe 4D