Intervista: la seconda guerra mondiale

Oggi sono andata a intervistare la Signora Maria Antonietta Merlino, che ha vissuto nel periodo della seconda guerra mondiale. Cosa pensa della seconda guerra mondiale?

È stato un evento drammatico, terribile a causa delle morti e delle persecuzioni. Io, però, ero bambina, avevo circa 4 anni. Per noi bambini sentire la sirena d’allarme, che annunciava il pericolo del bombardamento, significava correre nel rifugio, costituito dallo scantinato del palazzo e giocare insieme liberamente e divertirci. Con il tempo ho visto che non avrei immaginato e che non sarebbero dovute succedere.

Adesso parliamo un po’ delle sue esperienze personali. Cosa mi può raccontare?

Una delle cose che mi ricordo in particolare è questa: un giorno, avendo sentito la sirena che annunciava il bombardamento e non facendo in tempo a uscire di casa, ci nascondemmo sotto il letto matrimoniale dei miei genitori, perché non avevamo altro rifugio. C’erano i colpi che partivano dal marciapiedi e finivano per arrivare anche sulle pareti della camera da letto. Io ero preoccupata soltanto di andare a recuperare la bambola che non avevo portato con me per ripararla. Appunto per questo uscii dal rifugio per cercare la bambola, mentre mia madre e mio padre urlavano per la paura che venissi colpita.

Un’esperienza particolare che ancora oggi mi fa ridere fu quella di veder camminare per strada due tedeschi, uno dei quali aveva la tasca rivoltata in fuori. Allora lasciai la mano di mia madre e corsi da lui e, tirandolo per la giacca, gli indicai la tasca. Lui la rimise apposto e mi fece un mezzo sorriso. Tutta contenta tornai da mia madre.

Per voi qual era il problema più grande?

Il vero problema era la mancanza di cibo. Si usava, per mangiare, la “tessera annonaria” con cui si prendeva una determinata quantità di cibo, ma questo spesso non bastava. Per questo crearono la Borsa Nera, dove si poteva comprare cibo in cambio di oro oppure di danaro se qualcuno ne aveva. Mi ricordo che mia madre portò collane e bracciali d’ oro per prendere un prosciutto intero. Noi felici quando lo vedemmo ed eravamo tutti intorno per prendere una fetta. Ma quando fu tagliato mia madre vide che all’interno era pieno di Vermi. Mio padre, invece, portò dall’ufficio la polvere per fare le frittate, che erano ignominiose, ma che noi per la fame mangiavamo volentieri, come anche il pane fatto con la crusca. I miei nonni ci proposero di trasferirci da loro perché questo problema si sentiva meno dove vivevano loro, a Napoli. Noi partimmo su un camioncino che si reggeva in piedi per forza e misericordia di Dio, perché le ruote erano un po’ sgonfie, traballavano e davano instabilità al mezzo e il tragitto era piuttosto lungo. Lungo la strada, ci fermarono i tedeschi e chiesero a tutti gli uomini che erano sul camioncino di scendere. Vedendo mio padre insieme agli altri e avendo paura che gli venisse fatto del male, lanciai la prima cosa che avevo sotto mano. Colpii l’elmetto di un tedesco.

Cosa successe poi?

Il tedesco colpito si girò, venne presso il camioncino e io gli urlai di lasciare mio padre e di non fargli del male

E allora cosa fece?

Non capendo l’italiano, fece una risata benevola, si così si può definire. Dopo un po’ fecero risalire gli uomini, perché evidentemente volevano solo vedere i documenti.

Arrivati a casa dei miei nonni, trovammo finalmente la frutta, la verdura e altre cose da mangiare che ci sembrava passata un’eternità dall’ultima volta che l’avevamo vista e toccata.

E come viveste a Napoli nel periodo della guerra?

Eravamo sempre sotto la paura degli allarmi che suonavano quando si apprestavano i bombardamenti e mi ricordo che la prima sera mio zio disse con tranquillità: -Sereni, venite con me, vi porterò al rifugio in un momento-. Scendemmo in strada, ma purtroppo c’erano i gas fumogeni che non facevano vedere a un palmo dal naso. Mio zio ci disse di fare una cordata, dando uno la mano all’altro e tutti quanti insieme camminavamo, o meglio correvamo, per cercare questo rifugio, ma andammo tutti quanti a finire con la testa contro una saracinesca e il rifugio non fu mai trovato. Per cui allo stesso modo, alla fine dell’allarme e senza aver avuto bombardamenti in testa, potemmo tornare a casa.

Invece, come avete vissuto l’arrivo degli americani?

Con grande gioia perché voleva dire che finalmente i tedeschi andavano via. Però molti si precipitarono ad andar via, appena ebbero l’annuncio che la guerra era finita, altri se la presero più con comodo. E furono gli ultimi ad andar via che ne fecero le spese perché gli americani avanzano e loro scappavano e spesso si rifugiarono nelle case degli italiani. Un tedesco si rifugiò nel nostro palazzo, non si sa dove o in quale appartamento. Al che un gruppo di americani entrò alla ricerca di questo tedesco. Noi ormai ci sentivamo più sereni, ma fino a un certo punto: gli americani, per cercare quell’uomo, bussavano ad ogni porta e un marocchino bussò alla nostra porta con il calcio del fucile. Era forse un po’ ubriaco, penso, ma puntò la pistola contro mia madre, ingiungendole di dire dove aveva nascosto il tedesco. Al che, io, vedendo quest’arma puntata contro mia madre, mi recai nello studio di mio padre dove sulla scrivania trovai una bottiglia di inchiostro, levai il tappo e la scagliai contro quest’uomo, che era alto e piuttosto robusto. Questo mi guardò ferocemente e mi tirò su, poi mio padre gli parlò con dolcezza e in inglese e lui mi mise a terra e se ne andò.

Ricordo che un giorno, entrando, gli americani facevano le varie strade di Roma e vedemmo tanta gente che scendeva dalle case, correva per le strada perché si stavano avvicinando file di automobili, addirittura carri armati, proprio sotto casa nostra. Allora scendemmo anche noi perché gli americani, in piedi sui loro mezzi, gettavano cibo, caramelle, cioccolata, sigarette e si raccoglieva quello che arrivava come una pioggia benefica, perché era la gioia dell’arrivo e di un cibo che non vedevamo da tantissimo tempo.

Durante questi eventi, quando sono arrivati gli americani, stavate a Roma o a Napoli?

Quando ci fu l’entrata effettiva eravamo tornati a Roma e mi ricordo che è stato molto bello entrare a Roma e vedere come secondo giorno questa scena di gioia per le strade.

Ultima domanda, l’esperienza che ti ha traumatizzato di più durante la guerra?

È stata la ricerca che gli americani fecero nel nostro palazzo di un tedesco, che secondo loro si era rifugiato in uno degli appartamenti. E quindi, una volta che ci fu un’incursione nel nostro palazzo, come ho detto prima, noi eravamo veramente terrorizzati perché si sentivano colpi di fucile, spari, gente che urlava e, siccome la porta di casa era aperta, entrò un americano e vedendo me e mia sorella ci prese sotto le braccia e disse ai miei genitori di seguirlo. E lui piegato per non farsi vedere dalle vetrate dei pianerottoli insieme ai miei genitori, ci fece scendere giù. Arrivato, però quasi alla fine del primo piano, fu colpito al collo da un proiettile. Stramazzò al suolo, lasciandoci rotolare per le scale. Il veder la morte così da vicino mi fece capire che stavo vivendo un momento particolare della storia del mondo; che non avevo capito niente fino allora.

 

Camilla Bianchi