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Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Occasione per un bilancio ancora in passivo

DONNE E SCIENZA, UN FRUTTO ANCORA PROIBITO

La ricercatrice Lara Medalli avverte:“ C’è ancora molto da fare”

Camice bianco, guanti in lattice e occhiali di protezione? Look del ricercatore tipo di sempre o almeno questa è la risposta fornita dal 70% degli intervistati durante un’indagine di mercato, della celebre testata inglese Evening Standard, in merito alla presenza femminile in ambiti lavorativi in campo scientifico. Soltanto il 30% dei soggetti campione, ha intuito che l’intervistatore stesse riferendosi a un esponente del gentil sesso. I risultati del sondaggio, pubblicati in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, celebratasi lo scorso 11 Febbraio, hanno scatenato sul web le più disparate reazioni. Dall’indignazione, agli insulti: ventiquattr’ore di fuoco per quel 70%, rappresentazione di un consolidato luogo comune che, nonostante le pretese di progresso e emancipazione della società occidentale, fa ancora fatica ad essere sradicato.

Nell’immaginario collettivo, nonostante i notevoli passi avanti verso un’effettiva parità di genere , certi ruoli e figure professionali restano quasi esclusivamente una prerogativa assoluta dei maschi , specialmente a alti livelli. Se i due sessi totalizzano, a oggi lo stesso numero d’ iscrizioni e di lauree nelle facoltà scientifiche, questa uguaglianza è smentita dal fatto che poche lavoratrici proseguono in questo settore. Si innesca così il fenomeno che l’UNESCO, nel suo World Science Report, definisce efficacemente un tubo forato, da cui si disperdono i saperi di tutte quelle donne che alla fine sacrificano i propri sogni per i motivi piu’ vari.

Le cifre parlano chiaro. Da una recente indagine condotta dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del CNR, si evidenzia un calo del 24% della percentuale di ricercatrici donne e del 17% delle donne nei ruoli di comando in ambito scientifico.

Lara Medalli, laureata in fisica, autrice di numerose pubblicazioni note a livello internazionale e madre di una figlia denuncia: “Nel nostro Paese c’è una cattiva tradizione culturale” afferma la scienziata “che vuole che a capo degli organi decisionali ci siano sempre degli uomini. Ovviamente le eccezioni ci sono – ne è un esempio Fabiola Gianotti, fisica delle particelle, direttrice del CERN dal 2016 – ma si tratta di eventi abbastanza rari, che proprio per questo fanno notizia.

Al contrario, nella maggioranza dei casi le giovani laureate e ricercatrici devono scontrarsi con molti più ostacoli e difficoltà dei loro colleghi maschi.

Da sempre si tende o per abitudine o per pregiudizio, a considerare l’uomo più adatto a ricoprire alcuni ruoli di leadership, perché forse più dotato di capacità decisionali e pragmatismo. Al contrario alle ragazze è ancora velatamente richiesto di essere graziose e collaborative, relegandole in posizioni subordinate e secondarie.

Una donna deve faticare e impegnarsi il doppio per vedere riconosciuto il suo peso intellettuale e professionale. Inoltre, aziende o grandi gruppi di ricerca sono restii a inserire nei loro progetti personale femminile temendo, a lungo termine, che eventuali maternità possano bloccare l’ingranaggio del management dell’azienda. Così le donne sono costrette a scegliere tra carriera e famiglia, lavoro e figli.”

A questo punto, viene spontaneo chiedersi cosa sia cambiato da quando fulgidi esempi di grandi scienziate come Maria Montessori o Rita Levi Montalcini lottarono per emergere e dimostrare il loro valore, in un mondo allora completamente al maschile.

Nell’era dei nativi digitali le donne hanno ormai la possibilità di accedere, almeno in occidente, ai più alti gradi dell’istruzione, senza particolari difficoltà. Le Costituzioni garantiscono loro eguaglianza nei diritti e nelle opportunità, ma la quotidianità ci mostra come spesso, questa parità si riveli meramente teorica.

Ne è un esempio Simona, trentacinquenne, madre di due bambini, il più piccolo di otto mesi, laureata in chimica e dipendente di un’importante industria farmaceutica dal 2010, ora costretta alle dimissioni volontarie per l’impossibilità di conciliare gli impegni familiari con un ambiente lavorativo che non le consente flessibilità di orari e che l’ha squalificata sul piano professionale, in seguito all’assenza per maternità.

Siamo così tante da poterci definire una vera e propria classe sociale: donne lavoratrici che, a un certo punto della loro carriera, hanno avuto figli” queste le parole di Simona, che continua “In Italia la perdita di lavoro dopo la gravidanza non è un’eccezione ma un avvenimento fin troppo frequente. Il nostro è un Paese che disperde la propria ricchezza intellettuale, relegando tra le mura di casa cervelli, talenti, capacità, competenze ed esperienze, perchè colpevoli di aver scelto sia la maternità che la professione.”. Parole amare che purtroppo, fotografano una realtà comune a molte altre madri lavoratrici.

Progresso sociale e battaglie femministe possono dunque bastare a estirpare le radici profonde di una discriminazione che risale alla notte dei tempi?

Le figlie di Eva rivendicano da tempo un posto in ogni professione, anche in quelle che richiedono alte competenze scientifiche.

Perchè la femminilità non sia un handicap o un peccato da farsi perdonare, reclamano il diritto di essere sè stesse, mentre viene chiesto loro di rinunciare a una vita affettiva e familiare appagante a fronte di una brillante carriera.

Enormi passi avanti sono stati fatti da quando, più di un secolo fa, le Suffragette scendevano in piazza per il riconoscimento dell’identità civile dell’universo femminile, ma è innegabile che la realtà odierna è ancora lontana da un’effettiva e fattiva equiparazione tra i due sessi.                  

                                                                                                                    

IIS Tommaso Salvini