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Per quanto tempo ancora chiameremo Erdoğan ‘presidente’?

Conversazione con Suzanne Maiello, psicoterapeuta e docente di psicoterapia a Istanbul.

 

È sera e da Roma, puntuale, ricevo la chiamata. All’altro capo del filo immagino Suzanne Maiello, esperta psicoterapeuta infantile, docente e autrice, ascoltare attenta nel suo studio, mentre le pongo la prima domanda. Dall’autunno del 2013 Suzanne va spesso a Istanbul: tiene un corso di specializzazione per psicoterapeuti psicoanalitici dell’infanzia e dell’adolescenza. Come anche in Italia, gli studenti di quel corso sono quasi tutte donne. Hanno tra 28-30 e 40-45 anni ed esperienze di lavoro come psichiatre o psicologhe.

Cominciamo a parlare dello hijab, le chiedo quante di loro lo indossino: “solo una”. Suzanne mi spiega subito che lo hijab non è una copertura completa, come invece il burka: “è formato da una specie di cuffia che raccoglie i capelli e, sopra, da quello che noi chiamiamo il velo, una sciarpa tenuta insieme sotto il mento, i cui lembi vengono girati intorno al collo e ricadono dietro le spalle.”

 

Poi mi racconta di quell’unica studentessa: “so che, quando ha fatto domanda per essere ammessa al corso, nel comitato di selezione se ne è discusso a lungo, e io ho cercato di pensare a quali potessero esserne i motivi. A quel livello culturale, le donne che portano lo hijab sono molto poche. Avrei voluto chiedere a lei, avrei voluto sapere… una psicoterapeuta che si presenta con lo hijab dice qualcosa di sé, qualcosa di molto più esplicito, molto più vistoso di una maestra che porta il crocifisso al collo. Mi sono chiesta tante volte se le famiglie musulmane tradizionaliste scelgano questa terapeuta proprio perché sanno che è una musulmana rispettosa delle usanze, mi sono chiesta se anche le madri dei suoi pazienti portano il velo e se i loro padri sono osservanti. Ho anche pensato al fatto che la psicoanalisi è nata in Occidente, in realtà non fa parte della cultura mediorientale che storicamente, di prevalenza, è musulmana. Ma non ho mai chiesto. Ho sentito, in qualche modo, una soglia di invalicabilità, un muro. ‘Hijab’ in arabo significa ‘rendere invisibile’, ‘celare allo sguardo’, ‘nascondere’, ‘coprire’: è come se implicitamente ci fosse un limite tra me e lei,  e ogni mia domanda rischiasse di essere sentita intrusiva”.

 

Suzanne ora amplia lo sguardo, e parla della situazione più generale. “Da quando vado a Istanbul, quattro anni abbondanti, c’è stato un costante aumento delle donne che portano lo hijab. Erdoğan, anni fa, ha modificato la precedente legge di Atatürk, e ora la Turchia non è più uno stato laico. La nuova norma non proibisce di indossare lo hijab nei luoghi di lavoro pubblico. Se una professoressa delle scuole medie lo porta crea una forte pressione implicita sulle ragazze, che, per adeguarsi al suo volere, spesso la imitano anche se non provengono da famiglie tradizionaliste. È dalle prime mestruazioni, infatti, che le ragazze appartenenti a famiglie musulmane ortodosse indossano il velo. È stata una mossa psicologicamente molto astuta per una strisciante islamizzazione del Paese.”

 

Parlando delle nuove politiche in Turchia, le chiedo se ha mai percepito qualche genere di tensione o di cambiamento nella vita quotidiana della città. Ed è così: nel corso del tempo c’è sempre più polizia, l’esercito tappezza le strade, le camionette sono ferme agli angoli,  soldati e poliziotti imbracciano le mitragliatrici. All’aeroporto, lo stesso in cui il 28 giugno 2016 quarantuno persone sono state uccise in un attacco terroristico, l’accesso è controllatissimo. Il dramma è che “nella vita quotidiana si fa, si tende a fare finta di niente, come in tutti questi casi”.

 

Mesta, ricordando, Suzanne racconta: “una cosa che ho indirettamente vissuto è stata la protesta di Taksim Square.” Di quell’enorme piazza dove spesso, un tempo, si facevano manifestazioni, Ahmet Altan, scrittore e giornalista condannato all’ergastolo qualche giorno fa insieme ad altri tre attivisti, nel testo di risposta al suo atto di accusa, scrive: Durante un discorso pubblico mio padre disse: «Confido i miei segreti più intimi a piazza Taksim». E ha insegnato anche a noi a fare così. Non abbiamo segreti. Condividiamo tutto con i lettori tranne la nostra vita privata. Abbiamo sempre agito così.

  • “Accanto alla piazza c’è il Gezi Park e lì, nel 2013, a fine maggio, c’era stato un sit-in pacifico. Erano una cinquantina di persone, quasi tutti studenti, che si sedevano nel parco, campeggiavano lì anche la notte, in tenda, per impedire che lo distruggessero, tagliassero gli alberi, e costruissero un centro commerciale. La repressione è stata violentissima: è arrivata la polizia, ha cercato di scacciarli, ha lanciato lacrimogeni, tutti in squadra anti-sommossa come se fosse una rivolta politica. E questa reazione ha suscitato forti manifestazioni in tutta la Turchia (quasi cinquemila, che sfociarono infine in un movimento di massa che pretendeva democrazia e criticava il governo), represse con la violenza nelle grandi città; ci sono stati in tutto 11 morti, 8000 feriti, e 100 arresti. Era un vulcano pronto a scoppiare.”

 

Ecco come Ahmet Altan parla di tutto questo: Credo che gli eventi di Gezi Park siano stati un appello alla coscienza dello stato e del popolo. Non sono riusciti a trovare un posto nella coscienza dello stato, ammesso e non concesso che tale coscienza esista. Ma lo hanno trovato nella coscienza del popolo. Quello di Gezi Park era un movimento senza organizzatori né leader, nato in seno al popolo, un movimento intelligente, coraggioso e pacifico. Per quanto ne so non ha precedenti nella nostra storia.

  • Suzanne continua: “per caso, stavo insegnando a Istanbul, a fine maggio del 2016, poche settimane prima del colpo di stato, esattamente nell’anniversario del sit-in. Io vado sempre al lavoro in metropolitana, e quel giorno gli accessi alle tre stazioni più vicine a Taksim Square erano bloccati per impedire che le persone andassero a manifestare per l’anniversario.”

 

Ora mi parla, a partire da quello all’aeroporto, degli ultimi maggiori attentati. Nel 2016, a luglio, il colpo di stato militare fallito. A dicembre, l’autobomba fuori dallo stadio e poi, nel parco accanto, il kamikaze che si è fatto saltare in aria. “Quella sera eravamo in un ristorante rumorosissimo, dodici persone al tavolo, per salutarci prima della fine del corso. Tutti ridevano, sono molto chiassosi, un po’ come a Roma. A un certo punto alla studentessa seduta accanto a me arriva una telefonata, io la vedo impallidire, la vedo ammutolire, fare subito delle domande concitate, e gli altri la guardavano e chiedevano: ‘cosa c’è, cosa c’è?’. Contemporaneamente, a tutti gli altri tavoli, in quel ristorante fragoroso, è calato il silenzio. Moltissimi parlavano sottovoce al cellulare, chiamati da chi o aveva saputo o era vicino, perché eravamo a dieci minuti di macchina dal luogo dell’attentato, e che voleva sapere dove stavano i suoi congiunti. È stato un momento di brivido, di freddo, questo silenzio improvviso, in cui tutti cercavano di capire se i loro amici e familiari erano ancora in vita. La tensione si sente veramente.”

 

Chiedo a Suzanne se i suoi studenti le abbiano mai raccontato di episodi di repressione subiti o conosciuti, e la prima cosa che mi risponde è che non parlano quasi più. Prima sì, ma ora non più. Nel corso di quattro anni hanno smesso di parlare. “E io non chiedo, perché mi è venuto in mente che, chissà, in quella situazione di persecuzione ci potrebbe essere anche qualcuno che poi tradisce, oppure ci potrebbe essere una microspia da qualche parte. È come se un clima generale persecutorio filtri dappertutto”. Personalmente, però, a qualcosa ha assistito: “ho visto, per esempio, una volta, uno sciopero di insegnanti. Erano una trentina di persone, e cantavano. Cantavano delle loro rivendicazioni, con dei piccoli cartelli, una cosa assolutamente pacifica. Intorno a loro c’erano più di cinquanta soldati e poliziotti, in assetto anti-sommossa, con mitragliatrici. E quelli stavano lì, schiacciati, pochissimi, a cantare. Proprio una sproporzione… Che cosa cantassero non lo so, perché cantavano in turco, ma mi hanno detto che volevano dei vantaggi per i loro bambini, tutto qui”. A luglio, dopo il colpo di stato, moltissime scuole che il governo pensava fossero finanziate o comunque inquinate, secondo loro, dal movimento dei golpisti, sono state chiuse. “Una cosa che mi hanno detto i miei studenti è che dopo il colpo di stato molte famiglie non potevano più mandare i bambini in terapia, perché le terapie costano e uno o tutti e due i genitori avevano perso il lavoro. Professori, giornalisti, insegnanti di tanti tipi sono stati licenziati in tutto il Paese.”

 

Ma il clima non è sempre stato di tensione e silenzio. “Prima, nel 2015, ci furono delle elezioni parlamentari, e quello fu un momento di grande apertura e speranza. I miei studenti parlavano ancora moltissimo, in vista di quelle elezioni. Tutti, senza eccezione, e credo fosse vero, dicevano che avrebbero votato l’HDP, il partito socialista filo-curdo, di cui erano entusiasti. Era stato fondato da un giovane avvocato, che fu poi assassinato.” A giugno del 2015 l’HDP, il “Partito Democratico del Popolo”, ha effettivamente superato la soglia del 10% necessaria per entrare in parlamento, ottenendo 81 seggi sui 550 della Grande Assemblea Nazionale Turca. Insieme ad altri due partiti dell’opposizione, il CHP e l’MHP, ha strappato al partito di Erdoğan la maggioranza assoluta in parlamento, impedendogli così di approvare la progettata riforma costituzionale. Ma il presidente, il 24 agosto, ha sciolto l’Assemblea, indicendo delle nuove elezioni per novembre. E, ovvio, ha riconquistato la maggioranza assoluta.

 

Riguardo alla situazione curda? Ai profughi siriani in Turchia? Suzanne non gira intorno all’argomento: “Per il governo turco tutti quelli che sono pro-curdi sono terroristi. Non si fa distinzione tra i turchi che desiderano un Kurdistan autonomo e i collaborazionisti del PKK, il partito militante, violento, che organizza attentati non soltanto nella parte curda della Turchia, ma anche in altre regioni del Paese.

Per quanto riguarda i profughi siriani posso dire che, soprattutto nei quartieri residenziali, dove ci sono anche molti ristoranti, c’è stata, fin dall’inizio della guerra in Siria, una quantità enorme di mendicanti e di senzatetto che dormono sulle panchine, sotto gli alberi. Nessun centro di raccolta, nessun aiuto, nessuna integrazione.

Ma di politica si parla sempre meno, soprattutto dopo la seconda elezione del 2015, meno ancora dopo il colpo di stato del 2016, e meno ancora dopo il referendum costituzionale dell’aprile del 2017, in cui il presidente ha ottenuto tutti i poteri.”

 

“Il clima generale è di paura, paura di ritorsioni e, forse, anche perdita di fiducia nel prossimo. La paura del vicino di casa c’è sempre, in tutti i regimi totalitari. Non ti puoi più fidare come ti fidavi prima. E io lo sento, nei contatti personali del gruppo, anche se sono gli stessi studenti che erano felici di votare per quel partito che prometteva più libertà. Durante il nostro pranzo comune si parla d’altro, e nei contatti via e-mail o le supervisioni via Skype, che faccio spesso da Roma, mentre un tempo commentavamo la situazione, adesso non accade più.”

 

E come si combatte la limitazione degli spazi d’espressione del dissenso? “È un grosso problema, come in tutte le dittature. Una delle prime cose che fanno i governi totalitari è chiudere le testate dei giornali critici, chiudere i canali televisivi e radiofonici dissidenti. E quindi a livello ufficiale è molto difficile, soprattutto dopo tutte le epurazioni che ci sono state: hanno licenziato docenti universitari, professori, giornalisti, attivisti. Ci sono decine di migliaia di prigionieri politici, soprattutto tra gli insegnanti. Si cerca di eliminare sempre coloro che trasmettono una cultura magari non omogenea a quella che lo stato vuole sia rispettata. Come combattere, tu chiedi? È complicato, da dopo il colpo di stato c’è una generalizzata depressione tra chi prima, ancora, poteva sperare un po’.”

 

“Un anno fa, nel 2017, in vista del referendum costituzionale indetto dal governo, sono state proposte diciotto modifiche alla costituzione che praticamente riunivano – e riuniscono – tutti i poteri nelle mani del presidente. Mi ha fatto veramente impressione vedere Istanbul tappezzata di ‘evet’. ‘Evet’ vuol dire ‘sì’, in turco. C’erano striscioni giganteschi e migliaia di bandierine su cui era scritto solo ‘evet’, ‘evet’, ‘evet’. E invece non si vedeva da nessuna parte un “no”, non mi ricordo neanche come si dice, in turco. Questo ‘evet’ era onnipresente. Un giorno, però, sono passata a Taksim Square e ho visto non dei gazebo, come quelli ai tempi dell’HDP, quando ancora si poteva combattere di più, ma giovani, studenti, singoli ragazzi e ragazze che distribuivano volantini per il “no”, e tutt’intorno la polizia, che li tollerava ma li sorvegliava a vista. Ci vuole veramente grande coraggio. Ce ne sono, ma ce ne sono pochi, e ovviamente la resistenza va underground, come in tutte le dittature. Dopo questo giro di vite, dopo il referendum e la modifica della costituzione, che è stata approvata con uno scarsissimo scarto, il 51,4 per cento di ‘sì’ contro il 48,6 di ‘no’, con dei brogli inenarrabili, e mentre il paese era in stato di emergenza in seguito al tentato golpe, tutti i poteri sono nelle mani di colui che chiamano ‘il sultano’. È una situazione proprio preoccupante.”

 

Ahmet Altan, che anche dopo l’arresto non smette di parlare, di rispondere, di informare, fra le prime righe del testo in cui mette in luce le menzogne del suo atto d’accusa, scrive: Analizzando passo dopo passo il documento vi mostrerò la terribile malattia contratta dalla giustizia. Non lo farò in base all’ingenua convinzione che oggi in Turchia esista un sistema giudiziario sensato e indipendente. Sono ben consapevole che viviamo in un’era di vergogna e tirannia, in cui i detenuti rilasciati dal tribunale vengono arrestati di nuovo non appena mettono piede fuori dall’aula, e sono altrettanto ben consapevole che io stesso, proprio mentre assisto al dispiegarsi dei suoi effetti, vengo messo sotto accusa da quella stessa tirannia che per mano degli avvocati ha intrapreso un massacro della legalità. Eppure credo nel proverbio latino secondo cui le leggi talvolta dormono, ma non muoiono mai. So che lo stato di diritto è stato preso a fucilate, è ferito, sanguinante e ridotto in coma, ma alla fine guarirà e farà ritorno. I politici e gli avvocati attualmente al potere in Turchia forse pensano solo al presente e sono convinti […] che questo giorno durerà “mille anni”. Ma io so che il domani sta arrivando; arriva sempre.

 

Le citazioni di Ahmet Altan sono tratte dal suo “Ritratto dell’Atto di Accusa come Pornografia Giudiziaria”, scritto dopo l’arresto, nel 2016, tradotto in italiano da Silvia Castoldi e pubblicato nel 2017 dalla casa editrice e/o. Altan è stato condannato all’ergastolo, insieme a suo fratello Mehmet, il 16 febbraio 2018.

 

Di Leda Maiello

 

Foto scattata da Vadim Ghirda (AP/Vadim Ghirda) l’11 e il 12 giugno 2013 a Gezi Park e a Taksim Square.

 

Foto scattata da Vadim Ghirda (AP/Vadim Ghirda) l’11 e il 12 giugno 2013 a Gezi Park e a Taksim Square.