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Il bambino nella valigia: il quadro di un esodo nella propaganda dei social

Le parole non possono descrivere tutto, ma una fotografia sa parlare da sè. L’immagine che sta facendo in poche ore il giro del mondo apre bagliori di tenerezza in un contesto di violenza estrema: un padre che, in fuga dalla guerra che travolge il proprio Paese, decide di portare con sé null’altro al di fuori del proprio bambino, risposto in una valigia che è diventata la sua culla a pieno titolo. La foto è stata scattata alle porte di Damasco ed è testimonianza quanto più concreta della guerra scatenata sotto il califfato di Assad, in Siria, che costringe migliaia di persone ad allontanarsi dal proprio Paese. A risentire della tenerezza dell’immagine è più che mai l’Europa, approdo sicuro per gli immigrati che cercano disperatamente asilio.

La situazione non è affatto da sottovalutare se si considera che non è la prima volta che la sensibilità europea è stata toccata dall’immagine di un bambino che ci riporta ad una realtà contraddistinta dai segni dell’odio. A conquistare lo sguardo europeo per la prima volta fu infatti Aylan, un bambino annegato nelle acque turche. Poi fu il turno di Omran, rinvenuto dalle macerie di Aleppo, sporco di sangue e polvere. Ora è toccato al piccolo nella valigia. Il dubbio allora sorge spontaneo: per quanto tempo ancora saremo costretti ad assistere a questi macabri spettacoli?

Se è vero, dunque, che l’immagine non desta indifferenza, almeno nei primi giorni – e ne è evidenza la condivisione immediata sui social – , allo stesso tempo è innegabile la tendenza generale, pur parlando di qualcosa di così delicato, a creare fantasmi con i quali l’ immaginazione cozza ben volentieri nel tentativo di esonerare la coscienza da qualsiasi senso di responsabilità che sia suggerito dal sentirsi in empatia con il prossimo, sentimento che profaniamo non poche volte e, per giunta, senza smuoverci più di tanto.

L’interrogativo di fondo, comunque, è sempre lo stesso: qual è il ruolo delle istituzioni, quale quello della collettività e, soprattutto, quale quello dell’agire singolo? Cercare una risposta non è facile, ma di certo non si canterà vittoria limitandosi a compatire una situazione che, talvolta, non sentiamo appartenerci a tutti gli effetti.

Per non parlare, poi, dell’uso sconsacrato che si fa dei social in queste occasioni, dimostrando, dietro uno schermo, senza neppure conoscere e sentire concretamente la verità dei fatti, di essere in grado di alzare polveroni che non rispettano la dignità con la quale sarebbe opportuno parlare di questi ritagli di realtà che divengono strategie per propagandare e improvvisarsi opinionisti.

PERPETUA ANDREW