Red Sparrow va (troppo) incontro allo spettatore

Francis Lawrence, reduce dalla saga Hunger Games, sembra essersi abituato ai terreni sicuri, ai luoghi in cui sa che andrà incontro all’apprezzamento del pubblico, e quindi, nel passare dalla serie di successo al film unico, si affida alla sceneggiatura per muoversi in zone collaudate. La sceneggiatura, infatti, se da un lato costruisce le tensioni dove vuole che ci sia tensione, fa rimanere lo spettatore attento, e lo intrattiene, dall’altro imbocca una strada già spianata e non prende iniziative; la scelta del romanzo di Jason Matthews si accoda al recente filone della riscoperta della guerra fredda e dei suoi riverberi successivi, e non sfrutta debitamente il suo vantaggio principale, ovvero l’ambientazione in terra nemica. Invece che offrire un punto di vista diverso e straniante, non fa che mostrare la Russia come qualcosa di sempre più lontano e inverosimile, tanto che la protagonista non se ne sente parte (complice, probabilmente, il fatto che il soggetto sia di un ex agente della C.I.A.).

Il passaggio dal Bolshoi all’SVR, espediente narrativo molto interessante, s’impernia sulla figura centrale di una ragazza russa che dovrebbe essere intrisa di sentimenti contrastanti per la patria: dalla gratitudine per la fama da ballerina che la sua terra le ha portato, fino al disgusto che prova nel difenderla; e il suo volto invece è preso dall’americanissima Jennifer Lawrence, che è già stata stoico difensore di Panem, e – sebbene molto adatta al ruolo dal punto di vista delle sue caratteristiche attoriali – ormai porta con sé troppa fama, troppi significati perché la scelta di lei come Dominika Egorova possa conformarsi alle esigenze della sceneggiatura. Nonostante ciò, la sua interpretazione riesce a non cadere nel rischio altissimo che un ruolo così comportava: la Lawrence infatti non è in scena solo per il suo corpo, ma si interessa anche di dare carica emotiva e psicologica al personaggio, mantenendo un’espressione rigida che si allontana dalle interpretazioni di Joy e American Hustle, per tornare a richiamare certi tratti della durezza imposta dall’esterno a Katniss Everdeen. La sceneggiatura, invece, si appoggia chiaramente alla sua sensualità, per farne un punto sicuro a loro favore: le scene di nudo, parziale o integrale, eccedono fino a sembrare ripetitive (risulta quasi paradossale quando si ritrova a venire trasportata in moto a gambe nude senza dar segni di patire il freddo moscovita); il suo corpo è martoriato, coperto di sangue e torturato senza che ci sia uno sforzo per creare nello spettatore una ripugnanza che sarebbe forse d’uopo. Si tratta di vari espedienti per incontrare il consenso, che fanno tutti riferimento a un approccio etico ingenuo del quadro narrativo: come già espresso, il punto di vista dei russi è abbracciato solo “per finta”, quasi per gioco, ma il patriottismo dei creatori è palese. C’è un bianco e un nero: i russi mangiano i bambini, gli occidentali sono buoni. La classica retorica americana rende dunque piuttosto scontato dove andrà a parare il film alla fine del suo incessante palleggio di colpi di scena spionistici.
Questa dunque è l’impostazione di sceneggiatura che permette allo spettatore di guardare volentieri Red Sparrow, ma proprio perché è stato costruito per incontrare i suoi gusti, e rassicurarlo.

 

Di Bianca Delpiano

 

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Fonte immagine: comingsoon.it