La vita al tempo degli emoticon

Quando il 19 settembre 1982 Scott Fahlman, informatico e professore alla “Carnegie Mellon’s School of computer science”, metteva insieme questi pochi simboli per creare le prime emoticon, le classiche 🙂 e :-(, non pensava certo che avrebbe rivoluzionato il modo di comunicare di milioni di persone. Il suo unico obiettivo era distinguere i messaggi seri da quelli divertenti e ironici all’interno dei bulletin boards (gli antenati delle newsletter e delle mail), attraverso i quali lui e i suoi colleghi parlavano. “Dovevo trovare un modo perché tutti capissero se si parlava di una battuta o di lavoro” – racconta l’informatico americano –. “Allora ho guardato la tastiera, i due punti potevano facilmente diventare occhi, il trattino un naso e la parentesi una bocca. Dopo l’idea arriva la definizione EMOTICON, insieme dei termini inglesi EMOTION e ICON, in italiano emozione e icona, proprio per indicare una piccola immagine che esprima le emozioni. Con oltre 6 miliardi di conversazione giornaliere la lingua più usata su applicazioni, social media e siti web, sono gli emoji. Sì, proprio le faccine e i simboli. Per gli emoji parlano i numeri. Ogni utente della rete mobile può usare questa lingua, ciò significa che circa 3 miliardi di persone parlano attraverso questi simboli. Pensate che le persone che parlano inglese sono circa 1,5 miliardi in tutto il mondo. Gli emoji, ormai da anni, hanno invaso i nostri smartphone e computer e nel tempo hanno sostituito molte parole e frasi. La testimonianza di questa grande invasione la si ha per esempio nel libro “emoji dick” di Fred Benenson, interamente scritto con simboli e faccine. Grazie all’evoluzione di questi caratteri oggi possiamo rappresentare qualunque stato d’animo e diverse aspetti della vita comune. Dallo sport, al divertimento e dal cibo agli animali. Tutto comunque inizia con WhatsApp, il sole attorno cui gira tutta la galassia della comunicazione “teen” che passa sempre di più attraverso gli emoji, sebbene si possa riconoscere ai teenager la capacità di sintetizzare una intera frase in una faccina. Il rischio è quello di essere più capaci di verbalizzare e quindi di riuscire ad esprimere le nostre emozioni. Ma a volte lo scopo risulta essere proprio quello! Alcuni ragazzi, vergognandosi delle proprie idee, emozioni o sentimenti, e avendo paura di essere giudicati, usano, in modo spicciolo, emoticon che non rispecchiano per niente il loro carattere. Altri ragazzi usano questo tipo di linguaggio solo per abbreviare il discorso o per accentuare dei concetti. Questi caratteri risultano essere quasi sempre diretti e con un significato facilmente riconoscibile ma, in alcuni casi, come una vera e propria lingua, lasciano spazio a una certa ambiguità semantica permettendo quindi una diversa interpretazione tra il destinatario e il mittente. Una ricerca autorevole realizzata dal Dipartimento di Psicologia della Edge Hill University, in collaborazione con i colleghi della Australian Catholic University, sostiene che la motivazione principale per la quale si usano gli emoji si ricollega al giudizio degli altri, nello specifico vengono visti come uno strumento per aiutare gli adolescenti nella formazione di giudizi reali sulla loro personalità. L’uomo è implicitamente attratto ed impaurito dal giudizio sociale ed è quindi il bisogno di avere l’approvazione e il consenso degli altri che ci spingerebbe ad utilizzare sempre più emoticon. Quindi l’utilizzo di simboli può essere visto come il tentativo di estendere la nostra personalità davanti agli altri. In conclusione usiamo gli emoticon per valorizzare le espressioni emotive, infatti più usiamo simboli allegri e sorridenti più veniamo percepiti come individui molto aperti a nuove conoscenze gradevoli; più usiamo simboli tristi e maggiormente risultiamo individui cupi e malinconici.

Cecilia Anelli
Irina Valenti