Una riflessione sull’identità nazionale

di Mirko Manset

Mirko Manset, 17 anni, di origine filippina ma nato in Italia e studente del Liceo scientifico “Giacomo Ulivi” di Parma.

Sono parte dei cosiddetti “stranieri di seconda generazione”, dato che i miei genitori sono nati a Batangas, città a qualche chilometro dalla capitale Manila, mentre io sono nato e cresciuto a Parma, città dove viviamo tuttora. In famiglia dicono che sono “Magaling”, traducibile con “bravo-intelligente”, perché a differenza del mio fratellino e di molti altri “stranieri di seconda generazione”, riesco a parlare fluidamente sia la lingua dei miei genitori, il tagalog, sia l’italiano assumendo addirittura degli accenti particolari sia di Batangas che di Parma.

Mi posso considerare quasi un privilegiato, una persona che vive tra due culture totalmente differenti che non si escludono a vicenda ma anzi si arricchiscono: non è solo questione di lingua o piatti tipici, ma anche di modalità di pensiero. Il rispetto verso le persone, nelle Filippine come in molti altri paesi asiatici, è radicato, un valore che non bisogna neppure insegnare: basti pensare che mio fratello non mi chiama mai per nome, ma con il termine “Kuya” che vuol dire appunto “Fratello maggiore”, parola che non si usa solo in un contesto familiare ma verso qualsiasi persona per chiamarla rispettosamente; d’altra parte l’Italia mi ha permesso di studiare, di conoscere, di formarmi in questa società e provo un forte sentimento di nazionalità in questo senso.

Molto spesso si sente parlare di eventi razzisti o denigratori , ma non nel mio caso: forse per fortuna o forse perché dovrebbe essere la norma, io non mi sono mai sentito giudicato per le mie origini o la mia cultura; le persone che ho conosciuto sia a scuola che fuori non hanno mai visto nella mia diversità, almeno credo, un ostacolo e da parte mia io credo fermamente nella forza dell’eterogeneità. Per questo non ho mai intrapreso un “percorso di integrazione” perché in fondo sono sempre stato integrato, a scuola come in qualsiasi altro contesto. Come ho già detto, fin da piccolo parlo molto bene l’italiano, al contrario dei miei genitori che fanno fatica ancora adesso, ed è forse questa la mia fortuna: la lingua infatti rappresenta molto spesso l’ostacolo più grande per l’inserimento in una società e la possibilità di comunicare e quindi pensare in due lingue e due culture diverse mi ha permesso di formare un’altra mentalità, più aperta e nata dall’unione dei miei due paesi. Posso dunque dire sentirmi me stesso indipendentemente dall’identità nazionale.

Alla domanda “ti senti più italiano o straniero?” Nicolò, il mio fratellino di dieci anni, mi offre un altro punto di vista, nonostante le nostre stesse origini. Nico, lo chiamo così perché non esiste nessun termine filippino per indicare i fratelli minori, mi risponde che si sente quasi totalmente italiano perché vive come tutti i suoi compagni di classe. Ha gli stessi libri, gli stessi interessi e gioca a calcio (sport che nelle filippine è quasi inesistente) come la maggior parte dei bambini italiani; di filippino gli rimangono solo alcune parole e l’amore per qualche nostro piatto tipico, ma per tutto il resto è un italiano, legato molto di più a questo paese piuttosto che alle Filippine.

Io invece penso di non essere né più italiano né più filippino, ma entrambi perché, nonostante le mie radici che non posso e non voglio dimenticare,

“io t.v.b. cara Italia, sei la mia dolce metà” (Ghali, Cara Italia).