Il cacciatore di stelle – Racconto

Guardava fuori dalla finestra, scura e polverosa, danzando come un acrobata fra le note del suo violino e della malinconia.
La strada era umida e rifletteva le luci buie del cielo grigio. Da tempo ormai non splendevano più raggi di luce in quel luogo, segregato in una cella di tenebrosa oscurità e angoscia.
“Ghetto” lo chiamavano coloro che lo avevano edificato, mattone dopo mattone, forgiandolo con crudeltà. Ed era là dentro che, senza scrupoli, avevano ammassato e stipato un intero popolo, tenendolo lontano dal mondo reale.
Era in quel carcere che fu imprigionato Sigmund, il violinista del secondo piano. Era un tipo misterioso e nessuno osava parlargli. Sembrava essersi rifugiato in un mondo tutto suo, in quella stanzetta buia, nella quale risuonavano le risate frantumate di sua figlia e di sua moglie, portate via in un giorno piovoso dal vento. O così soleva pensare.
Aveva visto tanta malvagità, così tanta che gli pareva di averla intorno da quando era nato: non si era mai sposato e non aveva mai avuto figli, di questo si andava piano piano a convincere. Se fosse un modo per dimenticare, questo non lo so. Ma posso constatare ufficialmente che non era più se stesso.
Quando usciva guardava solo i suoi passi infrangersi nelle pozze fangose. I suoi compagni di sventura cercavano di trovare la felicità in quel poco che restava loro. Ma per Sigmund tutto ora era vano, tutto era lecito. Un pensiero incoerente meditato nella solitudine. Gli invasori gli avevano portato via la casa, l’identità, la famiglia, i colori e il sole; gli restavano le tristi note del suo violino e la malinconia.
Man mano che i mesi passavano nel ghetto il tempo si inaspriva, i rapporti si incrinavano e i climi divenivano tesi. La prigionia cominciò ad asfissiare e a terrorizzare tutti, posati come una piuma sull’orlo del burrone della rovina.
Sigmund si fece sempre più solitario: usciva e tornava dopo poche ore con qualcosa sotto braccio. Tutti si chiedevano cosa stesse combinando nella stanzetta del secondo piano.
“Di certo è pazzo” dicevano i più anziani “Ma non stupido, anzi, nella sua follia credo proprio sia una mente brillante!”
Quando tutte le luci erano spente e nell’oscurità la luna bagnava con la sua luce i tetti dei palazzi, la lucina della stanzetta di Sigmund era accesa.
Alcuni provarono a bussargli nella notte, ma lui non aprì, altri sbirciarono dalla finestra, ma lui di fretta e furia chiudeva le tendine stracciate, come se nascondesse qualcosa di davvero importante al suo interno.
Con l’inverno alle porte, cominciarono a soffiare in quella prigione venti gelati, che come onde fredde nel mare d’aria, s’infrangevano sui mattoni incolori e sulle persone.
Già da qualche settimana Sigmund non si produceva più nella solita e monotona routine e col passare dei giorni anche la lucina della sua stanzetta imparò a spegnersi di notte. Il clima in quelle settimane era velato da una quiete momentanea, pronta ad essere infranta.
Il solitario violinista passeggiava sul lastricato, circondato dalle palazzine grigie, alte e curve su di lui.
Pareva assente, su di una nuvola, che lo portava in alto, lontano da tutto e da tutti. E gli altri prigionieri cominciarono a guardarlo con riguardo, chi con timore, chi con disprezzo.
Man mano che i pomeriggi si oscuravano e le ombre avanzavano nella luce sempre prima, i costruttori del ghetto, crudeli e armati, cominciarono a svuotare le palazzine. Come oggetti insignificanti, caricarono i compagni di Sigmund su camion che partivano per non tornare.
Molti la chiamarono la “pulizia”, ed in ciò si rivelò l’apice della crudeltà umana.
Sigmund pareva indifferente: forse perché non aveva più nulla da perdere, ma la sua sembrava più una sicurezza, come se già sapesse cosa quando aspettarsi il giorno della pulizia nel suo edificio.
Le notti non erano più silenziose: ruggiti di proiettili, uno risuonante dietro l’altro, rimbombavano nell’oscurità. E la gente tremava fra le coperte.
Le persone, da timide com’erano, cominciarono a confrontarsi fra loro, scoprendo ovvie paure comuni, ma celate dal terrore che annebbiava loro la mente.
Tutte le sere si riunivano nell’atrio della palazzina più grande, dove erano accatastate tavole di legno, sedie rotte e qualche quadro.
“Dobbiamo fuggire!” dicevano alcuni, più intraprendenti.
“No! È impossibile!” ribattevano coloro che preferivano restare coi piedi per terra. Le serate proseguivano così, con un continuo battibecco per chi avesse ragione e per chi avrebbero dovuto seguire.
In tutto ciò Sigmund non intervenne neanche una volta: se ne stava solo, in un angolo, con un sorriso sprezzante sulla faccia. Guardava gli altri dall’alto in basso, ma con l’avanzare delle sere qualcuno se ne accorse, ed una volta per tutte gli chiesero cosa stesse succedendo.
“Niente!” rispose lui, con tono esasperato “E poi non verrei di certo a dirlo a voi! Io so già di essere salvo, ecco quello che succede! Non verrò mai catturato dai proiettili e dai treni, se proprio lo volete sapere!”
Alcuni lì per lì lo odiarono, altri lo presero per pazzo: la maggior parte cominciò a invidiarlo. Passarono istanti silenziosi, colmi di furia, che furono rotti dalle parole potenti del “capo” della comunità, chiamato anche “maestro”.
Avanzò con la sua lunga e crespa barba fino a Sigmund, poi parlò: “E in che modo sei così arrogantemente sicuro di sopravvivere? Perché non porti con te qualche anima fanciulla e innocente?”
Il violinista pensò un po’ alle parole del vecchio. Fu una riflessione finta, come per fare scena: sapeva già la risposta, perché già aveva intuito che qualcuno, prima o poi, gli avrebbe fatto quella domanda.
“Non condividerò mai la mia fuga con nessuno di voi: ci ho messo tanto tempo per costruirla: è mia, è solo mia, e non voglio che ne usufruisca qualcuno che non ha dato neanche un contributo, se non sbirciare e darmi fastidio notte e giorno! la mia risposta è no! Trovatevi un altro modo per salvarvi la vita, il mio non vi aiuterà!”
Tutti lo guardarono male: quanto egoismo e prepotenza si concentrava in una sola persona. Fu subito cacciato dalla stanza. Sigmund si diresse nella sua stanzetta e quando aprì la porta cigolante lo vide: il suo razzo, con l’acciaio luccicante, la punta aerodinamica e la parte di fondo rossa fiammante, pronta a sputare lunghe lingue di fuoco nella volta celeste.
Nel suo missile ci aveva messo tutto il sudore e la fatica di cui disponeva in quell’ambiente tetro, e non l’avrebbe mai ceduto o condiviso con nessuno. Lo accarezzò prima di andare a letto, sussurrandogli sul ferro laccato: “Mi porterai alle stelle, amico!”
Il mattino dopo ripresero le “pulizie” del ghetto. Quel giorno fu portato via il maestro. Tutti nell’atrio quella sera gli resero omaggio, tranne Sigmund, che dalla sua finestrella udiva e vedeva i canti e le luci dei candelabri d’oro, che si insinuavano come rare gemme nella roccia nera.
I creatori del ghetto avanzavano velocemente di giorno in giorno, avvicinandosi sempre di più alla pulizia del palazzo di Sigmund.
Il violinista cominciò a preparare il razzo, le provviste e tutto il necessario per stare sulla Luna, perché questo era il suo piano: traferirsi sulla Luna, trovando finalmente pace e libertà, fuggendo da quel mondo crudele che tanto gli aveva tolto.
Arrivò il giorno fatale: gli armati costruttori della prigione stavano sgomberando il piano terra del palazzo di Sigmund, presto sarebbero arrivati al primo piano e poi al secondo, fino alla stanzetta del violinista.
Questi mise tutti i bagagli nel missile: era ancora in pigiama ma il tempo stringeva. Si infilò nel razzo, allacciò le cinture e tirò un sospiro, incrociò le dita e poi azionò la leva. Il pavimento cominciò a tremare e il fuoco presto scaturì dal foro in basso.
Il missile fu lanciato ad un’enorme velocità nel cielo grigio: ruppe il tetto, per poi fendere le nuvole. Sotto di lui ogni cosa gli pareva buia e nera. Si sentiva libero, e felice.
Danzava nella nebbia mattutina: dopo un po’ si sollevò e in poco tempo fu nello spazio, perso fra gli astri lontani.
Si catapultò sulla Luna, grigia e coperta da foschie spaziali. Scese: tutto era silenzioso, deserto. Nella sua solitudine ritrovò l’allegria e cominciò a saltare tra i crateri, fra le note del violino e i ricordi della famiglia. La malinconia se ne era andata, con lei la tristezza, il rimorso e la crudeltà. Era giunta la felicità. Era giunta la libertà.
Sigmund si svegliò nel suo letto. Aveva sognato la fuga, ma ora intorno a lui sentiva solo gli spari feroci e passi pesanti che marciavano inesorabili verso di lui. Erano alla porta.
Federico Spagna – Classe 3C