Il fascino sottile della morte: Heine e Keats

Tra letteratura e realtà alla scoperta del più profondo timore umano

Tutte le volte che in un sogno moriamo ci svegliamo. Forse perché il nostro cervello non sa cosa succeda dopo la morte. Forse perché, tra tutte le domande che costellano l’esistenza umana, quelle sulla morte, sono le più profonde, le più intime. Sono proprio questi i misteri davanti ai quali, da secoli, ci si trova disarmati, incapaci di formulare un pensiero che, se non metta a tacere, almeno affievolisca i nostri timori. La morte suscita in noi una serie incontrollata di emozioni alle quali la razionalità non riesce a rendere ragione.

Nel periodo romantico, nell’età che fece dell’espressione dei sentimenti il proprio motto, la riflessione sulla morte tocca tesi del tutto nuove in totale coerenza con il concetto del sublime, vessillo di questa cultura. La morte si riveste, allora, di un fascino sottile, che sfiora con la punta delle dita il macabro. Heine e Keats si fanno portavoce di questo originale punto di vista e spingono il lettore in una dimensione che guarda alla morte con ammirazione e inquietudine contemporaneamente, cercano di trascinare il pubblico nella contemplazione di quel sublime che tanto loro ricercano.

Ne “La tempesta”, Heine coinvolgendo tutti i propri sensi descrive  il sibilo acuto del vento che, impietoso, alimenta la potenza distruttrice delle onde schiumanti, del loro infuriare rabbioso che non risparmia la piccola nave inghiottita nella nera voragine del mare. L’invocazione disperata a Teti di risparmiarlo dalla morte è vana: la presenza del gabbiano, di malaugurio nell’ intera tradizione marinara, anticipa già l’infausto destino del poeta. Il lessico con cui è descritto l’uccello “volteggia, fiutando cadaveri, il bianco spettrale gabbiano, ed all’albero maestro già aguzza il suo becco, e anela, bramoso di pasto” è programmatico: la morte non è più nera, ma bianca. Bianco come il piumaggio del volatile, così come l’incarnato pallidissimo della giovane ragazza , personificazione stessa della morte, che canta, accompagnandosi con l’ arpa, dal balcone di un castello sulla costa scozzese, una tetra canzone. La bellezza della ragazza, dall’incarnato marmoreo e dai ricci scompigliati dal vento, stride con l’aspetto malato e quasi trascendentale, privo di contorni, di lei. Heine, da eccellente Romantico ed appassionato di musica, lascia grande spazio alla sfera uditiva intensificando la contrapposizione tra il manicomio di suoni che impazzano durante la tempesta e il canto dolcissimo quanto spettrale e malinconico della fanciulla. È in questa incoerenza che si manifesta tutto il fascino della morte: non si può che restare stupiti, ammaliati da questa dicotomia che nell’uomo non potrà mai coesistere. O si vive o si muore.

Keats invece, sempre trattando la medesima tematica,nella “Belle Dame sans Merci” personalizza la ballata ambientandola in un paesaggio sterile, in un ambiente del tutto privo della forza suggeritasi in precedenza da Heine e accentuando l’aspetto medievale del ciclo arturiano della propria tradizione. La poesia narra l’incontro tra un cavaliere senza nome ed il poeta. Il primo racconta di come la sua sventura si sia verificata il giorno in cui, imbattutosi in una misteriosa donna, “dagli occhi selvaggi” e di misteriosa bellezza, aggiogato dalle suo profferte e dalla sua malia, condotto da lei in una grotta si sia addormentato. In sogno ha la visione di altrettanti cavalieri che lo ammoniscono dichiarando come la “belle dame sans merci”, come accadde per loro, lo abbia preso nella sua rete e lo tenga in suo potere. Risvegliatosi di soprassalto il cavaliere si ritrova solo in una regione desolata dove resta ad attendere la “femme fatale”. Non è un caso che ancora una volta la morte sia personificata da una donna bellissima, che promette piacere ed amore. Singolare è qui però l’aspetto del sogno, o per meglio dire, dell’incubo. Il cavaliere capisce davvero l’essenza della ragazza in una dimensione di subconscio: è come se la morte potesse essere compresa solo attraverso di esso e finché l’uomo resta saldamente appigliato alla propria ragione è in balia del fascino che la morte esercita su di noi, nella sua lucidità il cavaliere non può far altro che seguirla. Così come nel componimento di Heine molti sono i presupposti del finale della ballata: nell’incontro con il poeta il giovane porta su di sé i segni della morte come un giglio e una rosa avvizzita, simbolo di un amore privo di destino e tutto, attorno a lui, tace, come se egli stesso generasse quel silenzio angosciante.

Ambedue le poesie proposte dunque cercano di dare voce ai sentimenti che la morte mette in gioco, alle paure e alle aspettative che essa genera nell’essere umano. Si genera un tensione nei suoi confronti concorde con il concetto di sublime, si genera l’espressione del nostro animo in una commistione di realtà e sogno, di bellezza e aspetto tetro. La morte è  bianca o nera: questi colori si prendono  tutto lo spettro del visibile e, all’occhio  umano, restituiscono un’unica alternativa.

 

Di Anna Pederzani

 

Fonte immagine: The Art Post Blog