Memorie sbiadite – Racconto

Se oggi sono qui, nei panni di uno scrittore in cui mi riconosco, devo dare senza dubbio il merito a ciò che mi successe un po’ di anni fa.
Sinceramente non ricordo se sia successo veramente o no: è tutto, nel mio piccolo, un po’ avvolto nella leggenda, ma amo crederci e in qualche modo mi fa sentire speciale.
Avrò avuto più meno sei o sette anni. Ero ancora nella fase innocente della vita, quella dei sogni irrealizzabili e della gioia incontrollabile.
Non so per quale strano motivo o sortilegio, fatto sta che mi trovavo in una biblioteca: ecco, ricordo i libri, che si ergevano imperiosi nella loro polvere ai miei fianchi. E mi scrutavano, nel silenzio delle loro parole millenarie. Camminavo, lento tra gli scaffali, che mi inglobavano e mi chiamavano, e il loro canto echeggiava nella mia mente, rimbalzando.
Probabilmente i miei genitori erano in un’altra sezione, ed io ero il classico bambino disubbidiente, che si allontanava per la sua maledetta curiosità. Ma fu proprio lei, la curiosità, a condurmi per strade a me sconosciute, in cerca dell’ideale che mi avrebbe reso qualcuno.
Sfregavo le dita contro i volumi, che passavano, e sfrecciavano via al mio passaggio, come attimi persi.
Finiti gli scaffali, mi ritrovai in uno spiazzo. Fosse grande o meno, fosse una saletta o un giardino, questo non ricordo: ma ho impressa nella memoria contorni sbiaditi di qualcosa di vuoto, ma allo stesso tempo pieno di qualcosa, lo sentivo nell’aria. Pareva impercettibile, eppure lo intravedevo: ed era più forte della vista, dell’olfatto e di qualsiasi altro senso.
Fu allora che le parole mi sommersero, in una quieta pace. Mi sedetti e chiusi gli occhi.
Le parole mi levigavano, dentro. Non sentivo altro che la loro potenza, che mi trapassava con leggerezza. E mi muovevo in un allegro naufragio.
Poi tutto cessò. Riaprii gli occhi e di fronte a me si stagliava una figura, amichevole, che sorrideva, e mi guardava. Chiuse il libro che aveva in mano, si sedette e subito fu circondato da altra gente, e il chiasso riempì il vuoto. Erano voci accozzate, indefinite, ruvide. Non erano candide e scandite come quelle dell’uomo. Fu in quel momento che cominciarono ad arrivarmi i primi segnali: che fossero solo quelle delle storie e delle poesie le parole perfette, quelle armoniose, splendide, che di dimenano nel silenzio con incauta calma.
Tutto mi giunse improvvisamente, come travolto da fiumane di pensieri, che mi parvero ovvi, e pure in qualche modo sconosciuti, come se li avessi incontrati per la prima volta, coi quali mi ero confrontato e immerso, in profondo accordo. Per la prima volta mi sentii appartenente a qualcosa di importante, e mi apprestai ad essere incluso da chi la pensava come me.
Mi avvicinai dunque all’uomo, che in tutti quegli schiamazzi sentì la mia vocina, e mi ascoltò. Sembravamo avere qualcosa in comune: quel qualcosa lo avevo sulla punta della lingua, lo cercavo, lo inseguivo, ma nella timidezza e nell’imbarazzo non lo afferrai.
“Dimmi, piccolo” disse più o meno con la sua voce forte e pacata, stringendomi amorevolmente nella sua gentilezza.
“Chi sei?” chiesi, con gli occhi lucidi, mangiandomi le parole, balenando nella insicurezza.
Fece una risata, di quelle consolanti, che non ti fanno male perché ti spingono al muro della vergogna, comprimendoti. Mettendomi sulle sue gambe mi raccontò di qualcosa di meraviglioso che serviva nelle menti delle persone, di qualcosa di cui l’umanità non avrebbe mai fatto a meno e che il suo era un compito necessario, e lo definiva la linfa che lo teneva in vita.
Se gli altri avevano il sangue, nelle sue vene scorreva qualcos’altro, che definì magnifico e speciale.
“La scrittura. Le parole. Questo scorre al mio interno” disse, ponendo fine alla mia fervente curiosità di sapere di quale dono favorisse e di quale avrei potuto favorire io.
“E tutto va poi a fluire al cuore” aggiunse sognante, scrutando l’infinito.
Si descrisse come uno che ci sapeva fare, e me lo immaginavo, sovrastando l’immenso, a domare le parole, e le ammaestrava e con la fantasia le guidava all’interno di storie, sogni.
Le nutriva, non le lasciava nude, le arricchiva: se le sentiva tutte come dei figli, e come tali erano dipendenti da lui quanto lui lo fosse da loro.
Rimasi immobile, trascinato dalle sue frasi.
Lo guardavo, e lo ammiravo, in qualche modo volevo diventare subito grande per essere come lui.
E intanto il silenzio tornava a calare, facendo da cornice ai miei sogni.
Ci furono istanti di una calma imbarazzante. Nella mia timidezza, speravo che qualcuno la rompesse, come un vetro in frantumi. E il suono dei frammenti di cristallo ci avrebbe donato il coraggio. Ma l’uomo non ci fece caso, mi posò a terra.
A passi lenti e ovattati, lasciò la stanza, con tutti sul filo della corda, pronti a cadere.
Ricordo poco di quei secondi, sfuggiti e volatilizzati. Mi rimane l’immagine di lui, della sua marcia solenne, polverizzata nel tempo, col suo inesorabile sbiadire.
Mentre svaniva nella notte, mi rispecchiai in lui.
Non seppi mai il suo nome, per me fu solo lo Scrittore, un ideale: qualcosa che avrei seguito.
Mi svegliai. Avevo i ricordi sfuocati, ma fu in quel momento che decisi che sarei diventato scrittore.
Federico Spagna – Classe 3C