4-1 – Racconto

18 novembre 2012, ore 14:00,era una giornata di sole, la tiepida luce di novembre rifletteva sui caschi che io e mio babbo avevamo sulla testa, era la prima volta che andavo in motorino.
«Babbo, io non ci voglio andare!» gli dissi timida mentre lo abbracciavo forte, sfrecciando verso il Campo di Marte.
«Stai tranquilla, vedrai che ti piacerà…» mi assicurò lui.
Era cominciato tutto due sere prima, quando babbo era tornato a casa dal lavoro con una grande busta. Curiosa come sono, ero andata subito a girargli intorno, avendo odorato che si trattava di un regalo per me.
«Come si è comportata oggi?» chiese babbo, «Benissimo, ha preso anche due bei voti a spagnolo…» rispose mamma facendomi l’occhiolino. Sorrisi abbracciando babbo, aspettavo solo che mi mettesse la busta in mano.
Seguii i miei in camera, mi sedetti sul letto e mi misi in attesa del regalo. Passò qualcosa come un quarto d’ora, poi mio padre mi appoggiò la busta davanti, «Non guardare; infila la mano e basta».
Io allora infilai la mano nella busta in modo molto titubante e toccai prima qualcosa di soffice, forse un pelouche, poi qualcosa di rettangolare, che non riuscii a decifrare col solo tatto. Il mio istinto mi portò a tirare fuori prima la cosa morbida, la strinsi con la mano e tirai: non si trattava di un peluche, mi ritrovai con un qualcosa di viola, rosso e bianco sugli occhi, era una sciarpa della Fiorentina. Sorrisi, adesso avevo capito cosa erano quei due rettangoli che avevo toccato: due biglietti per lo stadio. Infatti tirai fuori due cartoncini viola con su scritto “Fiorentina-Atalanta, maratona centrale. 18/11/12”: mi avevano regalato una partita della Fiorentina, sorrisi felice abbracciando forte i miei genitori, passai tutto il giorno successivo in preda a una grande euforia che però scomparve non appena salii sul motorino per andare allo stadio. Avevo paura che potesse succedere qualcosa, avevo paura delle persone che ci avrei trovato, avevo paura di perdere – che è sempre stata una delle mie paure più grandi – e avevo anche paura perché dovevo andare in motorino, e non mi sembrava sicuro.
Dopo quasi un’ora passata in sella a quel cavallo a motore, arrivammo a Campo di Marte, parcheggiammo. Vidi molti ragazzi che andavano verso lo stadio, avevano tutti o la maglia o la sciarpa della squadra, sorridevano, parlavano tra di loro, tutto il contrario di me, che mi attaccai alla mano di mio padre tremante per la paura.
«Stai calma, andrà tutto bene» continuava a ripetermi nel corso dei quindici minuti che dovevamo percorrere a piedi per arrivare allo stadio. Io ci stavo provando a stare tranquilla, ma mi era impossibile. Arrivati fuori dallo stadio seguii babbo fino al tornello corrispondente all’entrata del settore “D” della maratona centrale. Dopo trenta minuti passati in coda, arrivammo ai tornelli d’ingresso, dovemmo mostrare la carta d’identità insieme al biglietto.
«Perché vogliono la carta?» chiesi a babbo.
«Così sanno chi siamo…» mi disse mentre il ragazzo rideva con la mia carta in mano, poi me la restituì. Babbo mi spiegò che il biglietto era nominativo, e quindi dovevamo dimostrare che eravamo gli stessi che lo avevano comprato. Mi strinsi nelle spalle, sprofondando nella mia morbida sciarpa, salii le scale della maratona e seguii babbo fino ai nostri posti, il 46 e il 48 se non ricordo male. Mancavano dieci minuti all’inizio della partita, e io me ne stavo seduta col broncio: volevo andare a casa. Ero così sovrappensiero che non mi accorsi quasi che la voce stava annunciando le formazioni, quella della Fiorentina la ricordo ancora.
Come l’arbitro fischiò l’inizio cominciarono i cori, le urla, anche mio babbo urlava: a me veniva quasi da piangere, ma bastarono solo cinque minuti a farmi cambiare idea. Gonzalo Rodriguez è stato colui che dette il via a una serie di urla che mi lasciarono senza voce per due giorni: punizione dalla sinistra, rimpallo in area bergamasca e deviazione potente dell’argentino, questa fu l’azione che portò la Fiorentina sull’1-0. Vedere tutto lo stadio in piedi, che esultava ripetendo “Rodriguez” fino a rimanere senza fiato mi dette un senso di adrenalina addosso che tutt’oggi non so descrivere, mi voltai verso la curva Fiesole, di cui mi era stato tanto parlato: era coperta quasi totalmente da sciarpe alzate e bandiere al vento, presa dal momento scattai una foto, una di quelle che adesso sono le mie preferite. Questa sensazione di sentirsi invincibili finì al 32′, quando Bonaventura, favorito da un rimpallo sulla schiena di Aquilani, schiacciò la palla in rete: 1-1. Ricordo che mi misi quasi a piangere, babbo mi vide e si mise a ridere: «Goditi la partita, piangere si piange dopo…»
Aveva ragione, mi tolsi la sciarpa e la alzai come facevano tutti, cantando a squarciagola – e, lo ammetto, inventando le parole perché non avevo idea di cosa dicessero i cori – . Dopo quel goal qualcosa cambiò, la Fiorentina sembrava mutata nell’atteggiamento, attaccava con più grinta ed era molto più pericolosa. Erano gli sgoccioli del primo tempo, quando, al 42′, Aquilani, su punizione, siglò il 2-1 per i Viola. Altre urla, altra gioia, sommate a quelle di pochi minuti dopo, al 45′ infatti, dopo un intervento pericoloso su Cuadrado, Cigarini venne espulso. Neanche il tempo di festeggiare che, al secondo minuto di recupero, sempre il numero 10, segnò il 3-1 su calcio d’angolo. Palla al centro, fischio dell’arbitro, intervallo.
Lo stadio stava impazzendo, i ragazzi seduti davanti a me stavano guardando i risultati delle altre partite «Ieri il Napoli ha pareggiato, e pure la Lazio: se finisce così, siamo terzi.»
Passai i quindici minuti d’intervallo a parlare con babbo, mi stava spiegando il fuorigioco e la rimessa laterale, visto che durante il primo tempo ero rimasta perplessa da alcune cose.
Poco dopo ecco tornare i ragazzi in campo, ed ecco iniziare il secondo tempo: 11 contro 10, 3-1, era praticamente fatta. La certezza di questo si ebbe solo quattro minuti più tardi quando, su azione di Aquilani – indubbiamente il migliore della partita – Toni buttò il rete il 4-1, spegnendo così ogni speranza di rimonta per i nerazzurri di Bergamo.
Finita la partita ero tutt’altro che scontenta di essere stata lì: avevamo vinto, avevo riso, avevo perso la voce. «Grazie babbo!» gli sussurrai piano mentre stavamo montando in motorini «È stato il regalo più bello che potevate farmi».
Ancora oggi conservo il biglietto di quella prima partita, lo tengo insieme a quelli delle partite successive, ma quello sarà per sempre il più speciale, avrà sempre dentro di sé quella folle gioia di una piccola ragazzina di undici anni, che scopre per la prima volta un mondo nuovo, diventato uno dei suoi luoghi di sfogo preferiti.
Laura Cappelli
Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 3B