Improvvisamente, il passato – Racconto

– Larry, non ce la faccio più… – disse prendendosi il volto tra le mani. Quell’ultima settimana era stata un incubo: i flashback erano aumentati, la nausea anche. Sempre più volte si svegliava sudato nella notte, sul suo letto periflex, uguale ad altri milioni, e vomitava sulla moquette beige. Un po’ le visioni, un po’ l’odore del vomito, lo tormentavano, così si alzava per passeggiare, ma i corridoi dei comu-palazzi erano tutti uguali, bianche pareti interrotte solo da porte grigie scorrevoli, ove si trovavano le diverse camere, ognuna identica all’altra. Talvolta ad Enrie capitava di poter osservare il mondo fuori dalla grande vetrata della sala comune. Una distesa di grattacieli grigi si estendeva per chilometri e chilometri; la gente si affrettava per la strada presa dai propri impegni. Enrie non doveva preoccuparsene; lui era uno dei pochi eletti. Da quando si era risvegliato dal coma, immemore della sua vita trascorsa, gli uomini con le divise bianche lo avevano portato lì. Lì dove solo 1,4 miliardi di persone nel mondo, circa il 2% di tutta la popolazione mondiale, poteva andare per vivere una vita senza preoccupazioni, senza lavoro, senza responsabilità, ma anche senza gioia. Nei comu-palazzi era vietato stringere legami affettivi; tutti erano infatti reduci da una grave malattia o condizione, spesso venivano trasferiti in altre strutture per ricevere trattamenti medici, o essere sottoposti a particolari operazioni.
Enrie era lì oramai già da tre anni, ma negli ultimi mesi il suo passato si faceva sentire; continui flashback sconnessi lo tormentavano. Aveva perso il sonno, la fame, non sapeva più chi fosse e a causa del malessere allo stomaco non riusciva a pensare. Tutto ciò non piaceva ai suoi medici, che gli avevano segnato una lunga terapia dallo psicologo e controlli ogni giorno.
– Enrie, racconta ancora! – gli chiese il suo strizzacervelli quotidiano. Così, per la millesima volta, lui raccontò di quella macchina, prigionia rossa di lamiere; raccontò del volto di quella bambina, seduta accanto a lui, la sua fronte sanguinante ed i suoi occhi blu privi di vita, che in un tempo lontano gli avevano donato tanta gioia. Raccontò dell’oscurità silenziosa, fuorché quel suono perpetuo…biiiiiiiip; dei volti anonimi con la mascherina azzurra e i bisturi argentati. Poi il mal di pancia appena apriva gli occhi, la nausea, l’insonnia, che peggioravano la sua situazione psicologica.
Quando ebbe finito, corpose lacrime gli rigavano le guance. Si stropicciò gli occhi rossi; non sapeva nemmeno perché piangesse, non ricordava altro, non sapeva chi fosse quella bambina né a chi appartenessero quei frammenti di una memoria ormai persa.
Il dottor Laurense lo abbracciò freddamente, poi, sempre tenendolo per le spalle articolò una frase che Enrie non riuscì a comprendere, in seguito gli consegnò un foglio con su scritto l’approvazione per ricevere un’operazione.
“Un’altra” pensò Enrie, esausto. Inizialmente, sia lui che i dottori nutrivano speranza, ma nelle ultime visite la sua salute era sempre diventata più cagionevole, avevano smesso di consegnargli medicine o calmanti, ed avevano iniziato con le operazioni. Eppure le visioni non se ne andavano e nemmeno la nausea.
Messo il documento nella tasca dei suoi calzoni bianchi, salutò Laurense con una stretta di mano e si avviò nella sua stanza, dove si distese sul suo letto e si addormentò immediatamente.

Una macchina rossa, la bambina.
Dobbiamo procedere. Bisturi, curette, divaricatore, filo, ago.
Blu.
Biiiiip.

Quando Enrie si svegliò, la prima cosa che fece fu vomitare sulla solita povera moquette ormai rovinata e maleodorante. Ma questa volta non si alzò per fare la sua solita passeggiata, un’altra cosa attirò la sua attenzione; nell’angolo della stanza un’ombra nera stava nascosta. Si stropicciò gli occhi, una… due… tre volte, ma l’ombra era sempre lì, immobile ad aspettarlo.
– Chi sei? Cosa vuoi? – chiese avvicinando la mano al bottone per chiamare le infermiere.
– No, non farlo. Ti prego. Sono io, sono qui per aiutarti – si sentì rispondere. Appena udì quella flebile voce femminile, ritrasse di scatto le dita dal pulsante; non sapeva perché, ma il volto che emerse dall’ombra gli parve familiare. Le labbra sottili, il naso minuto e gli occhi, blu come il fondo del mare.
– Sei tu? Sei tu la bamb… –
– Sssshh… – gli sussurrò portandosi il dito indice alle labbra – È ora di andare, siamo in pericolo -.
Detto ciò lo prese per un braccio ed iniziò a trascinarlo attraverso i corridoi bianchi e vuoti, scendendo per numerose rampe di scale e svoltando ad ogni angolo, tutto nel silenzio più assoluto. Passati una decina di minuti arrivarono alla hall principale, dove due uomini sorvegliavano l’entrata, chiacchierando amichevolmente con una tazza di caffè nero ciascuno in mano. L’odore del caffè gli fece salire un conato di vomito alla bocca dello stomaco, la nausea stava aumentando.
– Probabilmente sono infermieri. – disse la giovane ragazza dagli occhi blu – Sicuramente non sono armati, se ci avviciniamo di soppiatto riusciremo a coglierli di sorpresa. Qui non stanno molto attenti, è difficile che un paziente cerchi di scappare -.
All’inizio, stordito dal sonno e dal mal di stomaco, non si era ribellato e si era lasciato trascinare attraverso tutto il comu-palazzo come se stesse sognando; ma quando capii che stava per fuggire dall’unico posto dove avrebbe potuto ricevere cure mediche, anzi, dall’unico posto che poteva considerare casa, si liberò dalla presa della ragazza.
– Stai scherzando? Io non me ne vado! Non so nemmeno chi sei! Perché dovrei segui… – ma venne interrotto da un forte conato di vomito e con un lamento si accasciò a terra.
– Sai perché stai male? Perché sono tutte bugie! Menzogne che ti raccontano per usarti – esclamò, inginocchiandosi a terra anche lei, prendendo fra le sue mani la faccia di Enrie.
– Guardami! Non mi riconosci? Sono io, tua figlia! –
– Io non ho… –
– Sssshh… loro ti hanno levato tutto, hanno resettato la tua memoria. I ricordi sono pericolosi, danno gioia alle persone, danno loro speranza di vivere. Meglio senza, per far star tranquilla la gente -.
– Io non… non capisco… –
– Loro ti stanno usando, mi hanno eliminata dalla tua mente per controllarti; o almeno credevano di esserci riusciti -.
Enrie non sapeva cosa pensare, sebbene fosse tutto cosi surreale, una parte del suo cervello la riconosceva, riconosceva i suoi occhi, il suo volto, la sua voce.
– Io, io non mi ricordo… –
– L’ ultima volta che ci siamo visti mi stavi portando alla lezione di danza. – iniziò a raccontare lei stringendogli le mani -Ti sei girato verso di me, per aiutarmi a sistemare la crocchia, quando poi è diventato tutto rosso. Dopo l’incidente loro ti hanno portato via, ti hanno fatto credere di volerti aiutare e ti hanno usato -.
– Loro chi? – chiese Enrie sconcertato. Tutte quelle informazioni erano uno tsunami che la sua mente non poteva sopportare.
– La droog company, la ditta ospedaliera transterritoriale. Coloro che ti stanno utilizzando non sono semplici criminali, si servono dei vostri corpi, dei nostri corpi, per… –
Fu interrotta da Enrie, che in preda ad un forte dolore fisico, oltre che un’ enorme confusione mentale, aveva iniziato a gemere sofferente. I suoi lamenti erano tali, che furono sentiti, nel silenzio della notte, dagli infermieri di guardia; questi, posata la tazza di caffè, si avvicinarono all’angolo dove Enrie stava nascosto con la ragazza.
– Ssssh… Ssssh. Ci sono io. Devi fare solo un ultimo sforzo, solo uno. Scappa, corri più veloce che puoi e non scordarti di me; solo così potrò aiutarti -.
Enrie non ebbe tempo di rispondere, si sentì afferrare per le spalle da forti mani robuste e si trovò faccia a faccia con un uomo alto vestito di bianco, il cui alito odorava di caffè.
– Ha bisogno di aiuto? – si sentè chiedere gentilmente da una faccia che si stava sforzando di simulare un falso sorriso. In quel momento Enrie non pensò, turbato dall’onda di verità da cui era stato travolto, a tutte quelle visioni, che per mesi lo avevano tormentato e che adesso si erano rivelate ricordi, assestò un pugno proprio sul viso sorridente dell’infermiere, facendogli lasciare la presa. Iniziò a correre, lasciandosi alle spalle il secondo infermiere, rimasto sbigottito da quell’azione violenta. Arrivato alla porta, si voltò indietro, per vedere dove fosse colei che si era dichiarata come sua figlia; ma nella hall erano presenti solo i due infermieri e un uomo della sicurezza, che gli veniva incontro. Così, sebbene fosse preoccupato per la ragazza, uscì dall’immobile e abbandonò quella prigionia, che fino a poco fa aveva chiamato casa
Ignorava dove sarebbe andato, ma sapeva, adesso sapeva, che mancava qualcosa in lui e che, se non fosse uscito da lì, non l’avrebbe mai scoperta. Riusciva a sentire l’odore dell’aria esterna, dell’asfalto e delle macchine.
“Continua a correre” sentì gridare la ragazza. Si guardò indietro, ma lei non c’era. “E forse non c’è mai stata” disse a se stesso. Quella fu l’ultima cosa che pensò, prima di cadere per terra. Poi tutto diventò buio.

“Il paziente Enrie Smith è deceduto alle ore 4.30 del mattino”, scrisse il dottor Laurence nella cartella clinica, tra un morso e l’altro del suo pranzo.
“Causa: rottura della merce.”
Non era la prima volta che capitava: molti pazienti avevano riscontrato dei problemi nel trasporto delle droghe da nazione a nazione. Enrie aveva presentato delle anomalie fin da quando era stato prelevato dal luogo dell’incidente, il suo corpo era danneggiato e i suoi ricordi cercavano sempre di tornare a galla. Le sue visioni erano aumentate esponenzialmente, tanto da fargli tentare la fuga. I medici ritenevano che fosse stata una di queste a scatenare gli eventi di quella notte, il paziente si era sempre dimostrato anomalo, ma mai fino a questo punto.
Loro avevano cercato di dargli un’ aiuto, ma non c’erano più speranze. Il trasporto di sostanze tramite corpi umani era una tattica oramai utilizzata da tutti i negoziatori. Le droghe si mantenevano integre più a lungo e nessuno sospettava niente. Oramai le loro aziende si erano diffuse in tutto il mondo, i pazienti erano il 2% della popolazione, e talvolta poteva capitare un imprevisto.
Alessia Priori
Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 2B