Le nostre tre domande a Michele Tranquilli

Cosa vorrebbe dire a chi l’ha aiutata a raccogliere fondi per i progetti?
«Diversamente da come si potrebbe pensare, non mi viene da dire “grazie” ma “complimenti”.
Ad esempio, se mentre giochi a calcio fai un bell’assist ad un tuo compagno, lui non ti dice “grazie per l’assist” ma “complimenti, hai fatto un bel passaggio”, anche perché non l’hai fatto per lui, ma per vincere la partita. Insomma, non mi viene da dire “grazie”, perché non è per me che hanno raccolto e raccolgono i fondi, ma per le persone che ne hanno bisogno».
Lei ha scritto che imparare davvero significa imparare a conoscersi. Ha scoperto nuovi aspetti del suo carattere?
«Ne ho scoperti tantissimi e mi sono reso conto che prima non mi conoscevo. Anzi, il fatto di partire per un’esperienza di volontariato come questa mi ha messo di fronte ai miei limiti, ai miei difetti, e quindi ho imparato a conoscermi un po’ di più. Avete presente i Lego? Mi sono detto: ma io che forma ho? Ho scoperto che sono molto testardo, che sono disordinatissimo, che mi viene mal di schiena se lavoro mezz’ora… Il paragone del Lego è bello perché se tu conosci te stesso e sai che pezzo di Lego sei, sai anche come fare ad incastrarti con il resto della società».
Può spiegarci il senso del gesto nella copertina del suo libro?
«Beh, è come fare una foto e chiedersi cosa si sta inquadrando: in questo caso sto guardando voi con le lenti della Buona Idea, e, anche se non posso imporvelo, mi piacerebbe vedere cosa potreste fare voi se aveste una buona idea, la vostra, perché so che potreste fare delle cose straordinarie. Il mio sogno è di raccontare le vostre storie».