Memoria – Racconto

La mia carriera da giornalista mi ha permesso di conoscere fatti, luoghi e persone straordinari. Tutti i ricordi delle esperienze che ho avuto, sono archiviate nei cassetti della mia memoria, indelebili, e non mi è difficile farli riaffiorare in testa. Credo sia stata proprio la mia professione ad avermi aiutato con la memoria, ed è sempre stato il mio lavoro ad avermi fatto capire l’importanza di quest’ultima. Tutte le esperienze che viviamo ci formano in maniera differente e portarle sempre con noi come il nostro “bagaglio personale”, ci fa capire meglio chi siamo…
In ben diciassette anni di onorata carriera in questo settore, ho avuto l’opportunità di avere a che fare con storie davvero affascinanti, eppure quella che rimarrà sempre la più vivida e importante resterà quella dell’intervista.
Avevo tredici anni e la professoressa ci aveva assegnato come esercizio “l’intervista a una persona che vuoi conoscere meglio”. Avevo già sentito molti miei compagni di classe parlarne fra loro e, a quanto avevo capito, molti si sarebbero scambiati delle domande per poter fare l’esercizio assieme, nonostante ci frequentassimo da anni! Io avevo preso sul serio il compito assegnatoci, mi era sempre piaciuto scrivere e leggere e non volevo avere la tentazione di fare qualcosa di banale, come i miei amici. Così, quando uscii da scuola, quel giorno, non mi diressi a casa, come facevo di solito, ma svoltai nel viale a sinistra ed entrai nell’edificio della biblioteca comunale. Era piuttosto vecchio, ma non così tanto da definirlo antico, ed era sempre pulito, ma non così tanto da definirlo splendente. Quando si entrava dal portone principale, ci si trovava davanti a un’enorme scrivania di legno scuro, dietro ad essa stava seduto il vecchio bibliotecario, un signore piuttosto anziano, ma non così tanto da definirlo decrepito, che indossava sempre una giacchetta leggera e degli occhiali a mezzaluna. Io cercavo sempre di evitarlo; infatti, come tutte le volte, scelsi di entrare dal portone sul retro. Non so per quale motivo mi comportassi così, ma quel tipo mi metteva in soggezione. Aveva negli occhi lo sguardo di chi aveva una storia da raccontare e, tutte le volte che avevo la sfortuna di vederlo per i corridoi della biblioteca, in uno dei suoi turni per controllare che fosse tutto al suo posto, mi sorrideva, mi fissava sfogliare i libri per qualche secondo, e poi se ne andava ridacchiando. Mi inquietava il suo comportamento, per cui, nei limiti del possibile, cercavo di non incontrarlo. Quel giorno, passando da quella che reputavo un’entrata “nascosta”, mi rifugiai in una delle stanze laterali dell’edificio e buttai giù una lista di nomi sui quali avrei potuto scrivere qualcosa di interessante e poi, mi addormentai con la testa sul palmo della mano. Un classico… Al mio risveglio trovai il vecchio bibliotecario sulla porta della stanzetta.
“Vai a casa, è tardi” borbottò.
“Come, scusi?” risposi io, che avevo ancora la mente carica di pensieri e idee che, però, non riuscivo a mettere su carta.
“Ho detto che è tardi e che stiamo per chiudere” precisò con l’aria di non avrebbe ammesso una replica.
Rimasi un po’ scocciato dalle parole dell’uomo, che sembrava volermi buttare fuori di lì a forza, così raccolsi le mie cose in silenzio e gli passai accanto senza dire una parola. Fu lui a fermarmi.
“Cos’erano tutti quei nomi scritti sul foglio?”
“Niente di importante; a scuola ci hanno detto di intervistare qualcuno che vorremmo conoscere meglio e io non ho la più pallida idea di chi o cosa scrivere.”
“Io se vuoi potrei raccontartela la mia storia…”
Lo guardai per un paio di secondi, poi gli voltai le spalle e me ne andai.
I giorni seguenti, anche se avrei voluto, non andai in biblioteca. Scelsi come mio rifugio invece il parco o il giardino sotto casa. Non era altrettanto bello o silenzioso stare là, ma mi accontentai. Perché ero stato così scorbutico con quell’uomo? In fondo mi aveva solo offerto di aiutarmi. Ci pensai per giorni e alla fine capii che non c’era nessun motivo. Avevo sempre provato un senso di soggezione nei suoi confronti e così, non avevo voluto accettare la sua offerta di aiuto. Anche se devo dire che la sua storia mi intrigava, e non poco. Si vedeva da lontano che quella era una persona che aveva molto da raccontare.
Mancava un giorno alla consegna del lavoro svolto e ormai mi ero rassegnato ad inventare qualcosa all’ultimo minuto, e infatti così fu. Parlai di una persona che neanche esisteva e, nonostante tutti si bevvero la balla che avevo inventato, rimasi deluso da me stesso.
Passarono due anni, erano mutate molte cose: i miei avevano divorziato, mi ero trasferito con mia madre in un’altra città e avevo iniziato il liceo, una delle uniche cose che non erano mutate era il mio amore incondizionato per la scrittura. Un pomeriggio decisi di fare una passeggiata nei giardini vicino alla periferia della mia nuova città; e fu lì che lo rividi. Non so cosa quell’uomo ci facesse lì, eppure era proprio lui, voltato di spalle e seduto su una panchina e con, seduto sulle sue ginocchia un bambino di circa dieci anni. Rimasi a fissarlo per accertarmi che fosse davvero lui, quando mi accorsi che stava raccontando al piccolo una storia, la sua storia. Stetti zitto e trattenni il fiato per essere il più silenzioso possibile, tirai fuori il taccuino che, da bravo cercastorie curioso mi portavo sempre in tasca ed iniziai a scrivere. Devo ammettere che rimasi stupito, aveva avuto una vita davvero interessante. Scoprii che si chiamava Vincenzo e che era nato in uno sperduto paesino nella campagna toscana. Sin da piccolo aveva avuto una passione per tutte le forme di arte: la pittura, la musica, la scrittura.
Era andato a vivere in città con la sua prozia all’età di sette anni e aveva potuto studiare. Al liceo aveva iniziato a scrivere poesie, che teneva tutte ben chiuse in una scatola di latta sotto il suo letto, e da lì non aveva più smesso. Non aveva concluso il liceo per andare a fare l’apprendista da un antiquario, che vendeva libri di edizioni introvabili e lì aveva scoperto che la sua vocazione era cercare miniature. A diciannove anni si era spostato ad Amsterdam, dove aveva aperto una bottega di miniature ed aveva avuto successo in pochissimo tempo. Era tornato in Italia, abbandonando tutto, per potersi sposare e vivere a Milano con la sua sposa, una delle più famose cantanti liriche del secolo. Aveva trovato lì un modesto lavoro che gli aveva però permesso di conoscere persone davvero eccezionali. Aveva tre figli e un nipote, ossia il bambino con cui stava parlando. Ed era andato a vivere lì in Veneto solo dopo la morte della moglie. Lì aveva cominciato il lavoro come bibliotecario, che però aveva abbandonato solo l’anno prima per compiere un viaggio per visitare tutta l’America, da solo. Quando smise di raccontare, la mano mi faceva male per il troppo scrivere, così, in silenzio, mi voltai e tornai a casa.
La prima cosa che feci fu trascrivere l’intervista in bella copia e rileggermele più volte, colpito dalla bellezza di quello che gli altri avevano da dire. Fu quel giorno che capii senza ombra di dubbio che sarei diventare un giornalista.
Ci misi tempo, impegno e passione, e adesso eccomi qui: un giornalista per davvero. Ora sono qui, trentaquattro anni dopo, a battere al computer questa, una memoria che per molti può essere insignificante, ma che per me rimarrà uno dei ricordi più importanti della mia vita. Indelebile. Incancellabile. Fisso nella mia testa per l’eternità.
Viola Maestri
Liceo Classico Galileo di Firenze – Classe 1B