L’italiano: una lingua morta?

«È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». È l’incipit della lettera aperta di 600 docenti universitari al presidente del Consiglio, alla ministra dell’Istruzione e al Parlamento italiano.

Comunicare, al giorno d’oggi, significa adeguarsi. Adeguarsi al contesto, adeguarsi all’interlocutore. Saper parlare correttamente non è una facoltà che compete a tutti; si è persa l’abitudine, si è perso, in un certo senso, il “sentimento patriottico”, e si è perso anche il fascino. Una volta niente era più affascinante di un vocabolario ricco da sfoggiare per catturare l’attenzione di chi ascoltava, purché esso esprimesse dei contenuti e non si riducesse a celare l’ignoranza, abbellendola con termini eruditi che vengono vomitati fuori. Il modo in cui ci presentiamo, soprattutto nel comunicare, è il nostro biglietto da visita. Fare una buona impressione, sembrare ed essere preparati, capaci e sicuri è ciò che conta per un giovane di quest’epoca. Tuttavia la questione non pare riguardarlo: la salvaguardia dell’italiano, lingua a rischio di estinzione, non è ritenuta importante da coloro che, anche non rendendosene conto, la violentano in continuazione.

Tutto ha inizio con la diffusione dei social, i primi a ridurre la comunicazione a poco più di niente: le parole abbreviate, vuote e non scandite da una punteggiatura che possa dar loro un senso logico e un’intonazione per renderle quanto meno non meccaniche. Spesso addirittura sostituite da emoticons carine che cercano di sopprimere l’apatia delle conversazioni. Ma da virtuale il problema è diventato reale, trasformandosi in veri e propri “orrori” grammaticali e sintattici, e in grande carenza di vocaboli. Quante volte ci ritroviamo in situazioni imbarazzanti? Situazioni in cui dinnanzi all’espressione persa del tuo interloqutore non puoi fare a meno di riformulare il discorso rendedolo più semplice e diretto possibile. O, al contrario, situazioni in cui sei tu ad essere costretto a consultare un dizionario perché ti imbatti in parole mai incontrate prima d’ora. É altissima la percenturale, riportata da recenti indagini, di giovani, nel nostro paese, a non essere in grado di sostenere prove scritte o verifiche orali a causa del loro linguaggio ristretto, banale, troppo poco specifico, perché non coltivato e arricchito.

I motivi sono da attribuire forse ad una lettura poco intensa, forse ad un semplice “adattamento” al registro linguistico più in uso: quello “moderno”. Dialettisimi, volgarismi, espressioni straniere, frasi ad effetto, citazioni la cui provenienza è spesso e volentieri sconosciuta, stanno soppiantando il “vecchio” italiano per il quale ci si chiede se ci sia ancora spazio. Un pezzo fondamentale della nostra cultura che viene minimizzato e ridicolizzato perché la sua complessità fa quasi paura.

La domanda sorge spontanea: qual è la soluzione? Probabilmente quella di far riscoprire e comprendere ai ragazzi la bellezza e la potenzialità della lingua, di una singola parola che, in tutti i suoi significati e in tutte le sue interpretazioni, può divenire un ottimo strumento per conoscere e farsi conoscere, per essere innanzitutto ciò che si dice e poi ciò che si fa.

Valeria Pagnozzi