Non si diventa uomini se non si conosce la storia

Genova 10 ottobre – Liliana Segre, nata a Milano nel 1930, è una dei tanti ebrei che furono deportati nei campi di concentramento nazisti ed è una dei pochi ebrei sopravvissuti all’Olocausto ancora viventi.

Per vari motivi, ha lasciato passare molti anni prima di rendere la sua testimonianza. Si è decisa quando ha visto che il numero dei testimoni andava fatalmente assottigliandosi col passare degli anni, e quando ha capito che aveva un debito nei confronti di chi dai lager non era più tornato, a cominciare dal suo amatissimo padre (la madre, invece, morì quando Liliana aveva solo nove mesi).

Il 19 gennaio 2018 Lilliana Segre è stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Il 9 ottobre, Liliana Segre è a Genova, per incontrare gli studenti genovesi al teatro Carlo Felice e raccontare loro la sua terribile esperienza nei campi di concentramento. Dopo tanti anni ha trovato la forza di testimoniare l’orrore patito, per mantenere vivo il ricordo di tutte le persone innocenti che sono state deportate ingiustamente e non ce l’hanno fatta. Lei dice sempre che è importantissimo non odiare, ma anche non rimanere indifferenti davanti alle ingiustizie che vediamo commettere intorno a noi.

“Sarebbe troppo semplice dire che la politica ha pericolose derive che fanno pensare al passato, ma io sono ottimista e spero che gli errori che sono stati commessi, non vengano più ripetuti!” Questa è una delle frasi che ha detto Liliana Segre sottolineando l’importanza dello studio della storia e l’importanza di ricordare le cose successe prima di noi.

Oltre a testimoniare nelle scuole, ha anche scritto un libro intitolato “Finché la mia stella brillerà”, in cui racconta la sua vita prima, durante e dopo la deportazione. Tante sono le frasi che fanno riflettere. Ad esempio: “Come potevo immaginare che degli esseri umani come noi avessero programmato delle camere a gas per altri uomini come loro?”. Nel suo libro racconta come la sua vita da bambina di otto anni cambiò in maniera drastica per colpa delle leggi razziali emanate nel 1938. Fu espulsa dalla scuola perché ebrea, le sue “vecchie amiche” iniziarono a non rivolgerle più nemmeno un saluto e molti degli amici di suo padre Alberto non li andavano più a trovare.

Quando le cose in Italia si fecero sempre più pericolose per gli ebrei, Alberto decise di scappare con la figlia: prima si rifugiarono in campagna a Inverigo, in Brianza, poi tentarono di scappare in Svizzera, che, però, non aprì loro le porte e dovettero tornare indietro. Ma al confine italiano furono arrestati da soldati italiani, che li portarono prima nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a San Vittore; da lì pochi giorni dopo, tutti gli ebrei che si trovavano nel carcere, furono condotti al binario 21 della Stazione centrale di Milano e così iniziò un atroce viaggio verso una meta a loro sconosciuta: Auschwitz.

Liliana racconta, ancora con vivo dolore, che tutto avvenne nella più completa INDIFFERENZA da parte degli altri. Solo i detenuti di San Vittore li salutarono alla partenza e manifestarono la loro solidarietà. Per il viaggio furono ammassati dentro carri bestiame: solo un secchio per i bisogni di tutti e un po’ di paglia a terra. Quando arrivarono ad Auschwitz, Liliana fu separata dal padre che non rivide mai più, le venne rasata la testa e tatuato un numero sull’avambraccio: ormai non erano più esseri umani, ma “pezzi”, non avevano più un nome ma un numero. 

Alcune donne già “veterane” del campo consigliarono a Liliana di attenersi ad alcune “leggi” non scritte, ma fondamentali per tentare di sopravvivere: imparare velocemente il tedesco e soprattutto il proprio numero di matricola tatuato sul suo braccio, mai guardare negli occhi una guardia ma tenere sempre la testa bassa. E la cosa più importante era restare nell’ombra, rendersi trasparenti, non farsi notare. A questo punto Liliana ricorda sempre una compagna che lavorava con lei in una fabbrica di proiettili: si chiamava Janine, era un po’ più grande di Liliana e non passò una delle selezioni, perché, mentre tranciava pezzi di metallo, si troncò le prime falangi di due dita. Riuscì a fermare l’emorragia e cercò di nascondere la menomazione al dottore preposto alla selezione, ma quello non si lasciò ingannare e la mandò nella fila dei destinati alle camere a gas. Invece Liliana superò la selezione, era felice e, anche per non farsi notare, non salutò la sua amica Janine neanche con un cenno del capo, neanche alzò lo sguardo. Ecco perché Liliana vuole raccontare questo episodio, che genera in lei un rimorso inestinguibile: vuole che tutti conoscano la storia di Janine e il male che le fu fatto.

Il 1° maggio 1945 Liliana, giunta dopo la cosiddetta “marcia della morte” nel campo di Malchow, fu liberata dagli americani che con molta efficienza offrirono cibo e assistenza; Liliana, 15 anni, pesava poco più di 30 chili!  Poi il ritorno in Italia insieme a qualche compagna di sventura e a un gruppo di soldati italiani, internati in campi di prigionia dopo l’8 settembre del ‘43, che dimostrarono alle povere ragazze un affetto fraterno. 

Quando arrivò a Milano, Liliana trovò solo i nonni materni, che si erano rifugiati in un convento, e gli zii materni. Dei nonni paterni, Olga e Pippo, già in Germania, per caso, aveva appreso la triste sorte. Il nonno, molto malato, e la nonna, sempre impegnata ad assisterlo, erano stati anche loro costretti a quel viaggio interminabile e disagevole perfino per i più sani, per giungere, sempre insieme, ad Auschwitz, alle camere a gas. Liliana aspettò invano il ritorno di suo padre Alberto. Lei è certa che suo padre non sopravvisse al lager per il dolore di non essere riuscito a salvare la figlia. Solo anni dopo lei ha trovato la conferma del suo decesso ad Auschwitz nella primavera del ’44.

Questa signora, non più giovane ma ancora lucida e determinata, parla con voce pacata ad una platea muta e impietrita. Chissà quanto le costa questo continuo rinnovare un dolore tanto grande. Non sono pochi in sala quelli che si asciugano le lacrime.

Giulia Boccone, Irene Galletto, Francesca Stasi
cl.  3B