Shoah, “Senza memoria non c’è futuro”

Intervista ad Antonella Cinelli, artista specializzata nel ritrarre partigiani e collaboratrice della mostra “Segrete”, rassegna nata 11 anni fa e che comprende una mostra di opere contemporanee inerenti all’Olocausto, esposta nelle antiche prigioni nel Palazzo Ducale a Genova.

di Giulia Dellacasa, Giulia Marcianò e Ilaria Penco

In che modo e per quale motivo ha sviluppato la passione di ritrarre i partigiani che ha conosciuto?

Innanzitutto io non ho potuto conoscere mio nonno, che era stato un antifascista, dato che è mancato quando ero molto piccola, come mio padre. Perciò ho incominciato ad informarmi sull’argomento in un modo particolare, anche per trasmettere il significato di ciò che è stato a mia figlia: ho cercato un modo per fermare la memoria. Ho scelto di farlo attraverso la pittura, utilizzandola come strumento di documentazione, incontrando partigiani – ormai anziani – per ritrarli, facendomi raccontare le loro storie ed esperienze. La pittura è diversa dalla fotografia, richiede tempo,  sedimentazione.  La parte più bella del mio lavoro è stato l’incontro, la conoscenza di persone stroardinarie.

Crede di riuscire a trasmettere le emozioni che ha provato quando ha conosciuto le storie dei partigiani attraverso la pittura?

Immagino di sì, soprattutto perché, a differenza della fotografia, l’arte è soggettiva, perché è tutta un’elaborazione di quello che l’artista vede e sente. In più la pittura crea un oggetto che  rimane alla comunità nel tempo, creando intorno alla persona ritratta un messaggio.

Qual è la storia del partigiano che l’ha colpita maggiormente?

Oltre alla storia di Condor, di cui ho parlato durante l’incontro, mi ha colpito la storia di due partigiane, che non ho esposto al Palazzo Ducale. Ricordo che, a seguito dell’incontro, mi misi a piangere, perché mi raccontarono cose terribili. La loro famiglia aveva aiutato i partigiani, nascondendoli nel solaio della loro casa, ma nel frattempo erano costantemente sorvegliati dai nazisti. Una delle due ragazze, la sera prima del giorno della liberazione, scappò di casa perché era venuta a conoscenza della morte della cugina di sedici anni a seguito di uno stupro di massa; consapevole del fatto che sarebbe andata incontro allo stesso destino, scappò per i campi, braccata come un animale, mentre i nazisti le correvano dietro con i fucili e provavano a catturarla. Questa storia mi ha sconvolto.

Durante l’incontro con le classi quinte, ha detto che quando incontrava i partigiani chiedeva loro il ricordo più bello e più brutto che avessero; nella maggior parte dei casi le risposte coincidevano?

Non del tutto; infatti, l’efficacia di queste domande è che ognuno ha risposto in maniera estremamente personale. Spesso ricorre nei ricordi più belli la nascita di amicizie durature oppure il ritrovamento di un familiare.

Quando ha conosciuto persone che hanno avuto contatti diretti con la tragedia, come crede che abbiano interpretato il suo interesse nei loro confronti?

Erano contentissimi, perché hanno paura che ciò che hanno fatto venga dimenticato dalle generazioni future; per questo, hanno passato gli ultimi anni della loro vita a recarsi in diverse scuole per raccontare le loro esperienze. Ora, invece, essendo molto anziani, non hanno più la possibilità di testimoniare.

Quale emozione prevaleva nei partigiani che incontrava?

Erano tutti molto commossi, soprattutto perché molte persone che ricordavano sono morte durante gli anni di guerra. Erano commossi perché ricordavano la propria giovinezza. Molti si commuovevano ricordando la costante paura che li perseguitava durante il periodo della guerra.