“A NOI DELLA PARTITA NON CE NE FREGA UN C**O!”

29 gennaio 2019. Nei pressi dello stadio San Siro a Milano, il giorno di Santo Stefano veniva ucciso a seguito degli scontri interisti e napoletani l’ultrà Daniele Belardinelli, investito da un pulmino di tifosi che cercavano di scappare dalla guerriglia. Con tutto il rispetto e il dolore che si può provare per chi non c’è più, bisogna però ammettere che la vittima non era esente da colpe dal momento che non era neppure tifoso interista ma varesino, presente in virtù del gemellaggio tra tifoserie, e con intenzioni poco raccomandabili. Anche la partita in sé è riuscita a rendersi vergognosa quasi tanto quanto gli episodi fuori dallo stadio, con gli ultras interisti che hanno bersagliato per 90 minuti il difensore del Napoli Koulibaly, ricoprendolo di ululati razzisti udibili in mondovisione. I giorni successivi al fatto sono stati vissuti con una indignazione teatrale tipicamente italiana, con mezzo paese sconvolto e le istituzioni che promettevano una svolta definitiva a questo problema. Ah, le istituzioni. La palla in teoria era passata a loro, ma dopo le classiche due settimane di proclami hanno fatto calmare le acque come solo loro sanno fare. E così, abbiamo perso ancora una volta l’opportunità di cambiare davvero le cose. Quanti altri morti per una semplice partita di calcio dovremo sopportare? Quanti altri ululati beceri provenienti dalle curve saremo costretti a sentire? A chi è al potere spetta il ruolo di cambiare tutto ciò, al giornalista quello di rendere più chiare le cose al lettore.

Ma il calcio, è sempre stato così?” Si chiederanno legittimamente in molti. “Anche tanti anni fa c’era l’usanza di comportarsi in maniera razzista e violenta?”

Questo, è un articolo che prova a far capire come si trasforma la passione del gioco più apprezzato del mondo, a una valvola di sfogo per chi sistematicamente si comporta fuori dalle righe: sto parlando degli ultras, delle figure di cui le istituzioni dovrebbero occuparsi più seriamente, per rendere il gioco del calcio solo un divertimento. Non sono santi, neanche tutti criminali come alcuni vogliono far credere, ma è chiaro che per cambiare veramente le cose serve una svolta su questo fronte.

Oggi analizziamo come si sono formati i primi movimenti ultras italiani, per arrivare fino ai giorni nostri, praticamente fino a quel disgraziato Inter-Napoli, per capire fino in fondo la natura di queste persone.

Se cercate “ultras” sul vocabolario Treccani, escono fuori le parole “persona oltranzista”. Queste persone hanno sempre vissuto la vita secondo concetti estremi, bianco o nero, fratello o nemico. Per capirne la mentalità occorre partire dalla loro nascita. Per quanto strano possa sembrare, gli ultras sono figli del ’68. Nel paese prevale la voglia di fare gruppo, di rivendicare insieme i propri diritti. Come spesso accade, la politica detta i comportamenti anche al di fuori del suo contesto. Le parole chiave sono partecipazione, aggregazione, ma anche aggressività. Essere tifoso, quindi, non sarà più lo stesso di una volta: se assistere a un incontro era visto come un semplice passatempo, da lì in poi diventerà un impegno, una partita nella partita.

Cominciano quelli del Milan, che proprio quell’anno creano la “Fossa dei Leoni” , evidenziando il loro carattere operaio e dunque di sinistra (“casciavit”) in contrapposizione ai rivali interisti, più aristocratici e tendenti a destra (“bauscia”). Nascono poco dopo, sempre a Milano, i “Boys- Le furie nerazzurre”. Sampdoria e Torino seguono a ruota. Il fenomeno esplode negli anni ’70. In quel decennio ogni squadra può contare su un gruppo organizzato, disposto a battagliare sugli spalti alla pari dei calciatori in campo. Nasce allora la cosiddetta mentalità ultras. L’identikit ideale si basa su quattro dettami: tifo sfegatato, identificazione con la città e il gruppo, dicotomia amico/nemico e antagonismo rispetto al sistema.

Si delinea anche una differenza tra tifosi, rispecchiata dal settore in cui si segue la partita: tribune per i borghesi e curve per i popolari, che diventano il luogo controllato degli ultras, protagonisti per i 90 minuti. Cambia l’atmosfera negli stadi: i giocatori vengono accolti da bandiere, striscioni, fumogeni, cori. Tutto pianificato, a mostrare la forte organizzazione dei gruppi. La squadra non è più l’occasione per l’evasione del week-end, ma qualcosa da amare. Ma gli ultras degli anni ’70 vanno oltre. Più che della squadra, diventano tifosi del loro essere tifosi: fa impressione vedere i leader di spalle al campo per tutta la partita, perché il risultato conta fino a un certo punto, la sfida del tifo è più importante: “A noi della partita non ce ne frega un c**o!”

E’ il periodo degli anni di piombo, comunisti e fascisti se le danno di santa ragione nelle piazze, e la domenica, con addosso le sciarpe delle loro squadre, ripropongono le stesse dinamiche negli stadi. Il loro tifo diventa una malattia, una valvola di sfogo dell’aggressività. Ed è qui che alla partita di calcio comincia ad essere accostata la violenza. Gli episodi sono tantissimi, fuori e dentro lo stadio. La tragedia è nell’aria. La prima avviene in modo accidentale: il 28 ottobre 1979 il laziale Vincenzo Paparelli è ucciso da un razzo lanciato da curva a curva pur senza un’intenzione omicida. E’ la prima morte dentro uno stadio di calcio.

Il boom economico degli anni ’80 cambia tutto. Si aprono le porte del campionato a fuoriclasse stranieri come Platini e Maradona. La violenza, però, continua. Negli anni si consumano le tragedie dello stadio Ballarin di San Benedetto del Tronto, la “morte al mundialito” (amichevole organizzata a San Siro, con Milan e Inter), quelle sul treno, l’Heysel di Bruxelles e diversi altri episodi isolati. Tra incendi, falle nella sicurezza e risse, si contano più di 50 vittime in un decennio. Un’ecatombe. Viene introdotta allora la sanzione che è ancora oggi il simbolo della risposta dello Stato, il daspo, il divieto a volte per anni di assistere a una partita. La risposta degli ultras spiazza ancora. La punizione è vista come un vanto: “Diffidati presenti!” , è il grido delle curve.

Chi ha detto però che tra ultras non si possa essere amici? Nascono i primi gemelleggi, favoriti a volte dall’affinità politica. Lazio e Inter, Genoa e Napoli, Parma e Sampdoria, Pescara e Vicenza, alcune delle amicizie più antiche d’Italia. Intanto cambia il look dei tifosi: allo stadio si va con il giubbotto imbottito “militare” o giacconi di pelle. Si sfoggiano anche petto nudo e tatuaggi.

Nella stagione 1990-91 una nuova fiammata di aggressività, con 75 episodi violenti. Nel ’93 nasce il fenomeno delle pay tv. Da lì in poi, i diritti tv per i club di Serie A rappresenteranno il 55-60% dei ricavi dell’attività sportiva. Il calcio per l’Italia diventa una nuova industria. E’ nato il calcio moderno, un “mostro” che gli ultras stanno ancora combattendo. In pochi anni le dirette tv a pagamento diventano così importanti da condizionare il calendario. Anche la sacralità della domenica viene sgretolata. Il risultato? Allo stadio vanno sempre in meno, e gli ultras comandano sempre più.

Dopo il 2000 la musica non cambia. Come non ricordare il motorino lanciato a San Siro da un gruppo di scalmanati o l’annullamento imposto dagli ultras di un Roma-Lazio a causa della falsa notizia di un bambino morto? Il 2007 è l’anno tragico delle morti del poliziotto Filippo Raciti e dell’ultras laziale Gabriele Sandri. Entrambe accentuano l’odio reciproco tra ultras e forze dell’ordine, considerati gli esecutori di una “dittatura moderna”. Capita dunque che cambi il nemico: in alcuni casi ci si allea contro i poliziotti. Sono nel mirino anche i giornalisti, accusati di alimentare i pregiudizi, trattando il popolo delle curve come un esercito di criminali. Con l’ostilità tipica di ogni mondo chiuso, gli ultras continuano a vedere in ogni inchiesta la volontà di manipolare e denigrare. E “giornalista terrorista!” si sente sempre di più nelle curve italiane.

E oggi? E’ cambiato il modo di tifare? I nostri ultras sono rimasti gli stessi, ma hanno cambiato look: è stato importato dall’Inghilterra lo stile “causal”. Giacconi Stone Island o North Face, cappello da pescatore, sneakers colorate, per adottare un profilo basso. Un po’ come per dire “arriveremo quando meno te lo aspetti.” Gli altri tifosi, invece, forse non hanno ancora trovato una propria identità: le partite in tv o al computer dal divano di casa rendono il calcio un fenomeno meno sociale e sempre più social. Il tifoso moderno e benestante lo vivrà con il telefono tra le mani, con un costo più basso di quello del biglietto.

Due modi di tifare e di vivere. Uno più attivo, selvaggio se degenera, l’altro passivo e con meno emozioni. Tra i due, nell’occhio del ciclone ci sono sempre gli ultras. Nel bene e nel male.