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Fornire alle scimmie il pretesto di dominarlo, davvero l’uomo vuole questo?

Un’analisi nella psicologia dei personaggi che hanno definito e reso un culto il  capolavoro del ’68 di Schaffner

La pellicola “Il Pianeta delle Scimmie” del 1968, diretta da Franklin J. Schaffner, adotta tempi e spazi descritti nel romanzo distopico del 1963 dell’autore francese Pierre Boulle e rappresenta un mondo dove la teoria dell’evoluzione darwiniana ha avuto esiti diametralmente opposti a quelli reali. Ci si ritrova in un mondo apparentemente distante anni luce dal pianeta Terra dove oranghi, gorilla e scimpanzé hanno dimostrato di aver avuto le capacità fisiche ed intellettive di prevalere sulla razza umana. Il protagonista del film da cui tutte le vicende prendono avvio è l’austronauta George Taylor che, in compagnia di altri due suoi colleghi, mosso dall’umana curiositas, dal suo cinismo e dalla sua poca fiducia nel genere umano, partecipa ad una campagna di esplorazione spaziale. L’ambizioso progetto consiste nell’effettuare una lunga ibernazione degli astronauti affinché costoro possano, senza essere troppo invecchiati, attendere più 700 anni lontani dalla terra per poi, una volta svegliatisi, scegliere un nuovo pianeta, privo di forme di vita troppo evolute, ripopolandolo e auspicando la formazione di una società migliore e più pacifica di quella che hanno abbandonato.

“[…] voi che mi state ascoltando ora siete una razza diversa… E spero che sia migliore! Io lascio il ventesimo secolo senza alcun rimpianto. Ma un’altra cosa, sempre che qualcuno mi stia ascoltando, non è niente di scientifico, è puramente personale… Visto di qui… Tutto sembra così diverso. Il tempo, lo spazio qui perdono… Di significato. L’individualità è annientata. Io… Mi sento solo… Ecco fatto. Però ditemi: l’uomo, quella meraviglia dell’universo, l’ineffabile paradosso che ha spedito me fra le stelle, fa ancora la guerra contro i suoi fratelli? Lascia morire di fame i figli del suo vicino?”

Mentre i protagonisti della vicenda stanno ancora attendendo la fine del processo di ibernazione, la loro navicella viene trascinata dal campo di attrazione di un pianeta nell’orbita del pianeta stesso, apparentemente isolato e spopolato, precipitando e affondando in un lago. I tre superstiti, sui quattro all’origine della “spedizione”, sopravvivendo all’impatto e ad una potenziale morte per soffocamento in acqua, avanzano i primi passi per esaminare il luogo dove saranno costretti a vivere fino al resto dei loro giorni. In una di queste loro esplorazioni scoprono ciò che più li sorprende: gli uomini sono ridotti alla condizione di animali, sono erbivori e non conoscono cultus et humanitas; tuttavia ciò che più li sconcerta è la supremazia delle scimmie che, ripartitesi i compiti tra oranghi, scimpanzé e gorilla, trattano gli uomini come bestie, analizzandone il comportamento e l’anatomia ed esponendone nei musei di storia naturale i loro corpi esanimi, premi preziosi di lunghe ed avvincenti partite di caccia dei gorilla tendenzialmente rozzi e violenti. Taylor, rapito e rinchiuso in un laboratorio di analisi e di sperimentazione sugli atteggiamenti umani, sarà l’unico a riuscire a sopravvivere a questa società distorta, scoprendo alla fine delle sue sventure di non essere sopravvissuto, nonostante tutto, da se stesso, dall’uomo.

Il paradosso dell’uomo ridotto ad animale è evidente tanto nel romanzo quanto nella stessa trasposizione cinematografca, sebbene i medesimi temi e le medesime argomentazioni e dinamiche siano utilizzati a condannare due diversi aspetti negativi della società umana. Nel romanzo Boulle, alla stregua di Catone il Censore, vuole muovere una rigida critica a quegli uomini che molli, lascivi e disinteressati non riescono più a mantenere la propria situazione di “supremazia psico-fisica” determinando come necessaria e quasi spaventosa conseguenza un terribile sorpasso della specie e dell’evoluzione perpetrato dai secondi in classifica delle speci, le scimmie, ai danni evidenti del genere umano. Quando nel romanzo si vuole porre un accento rancoroso e punitivo sui comportamenti oziosi, libidinosi ed indifferenti degli uomini, nel film invece si intende evidenziare con amarezza quanto nell’uomo la capacità di compassione e di amore verso il prossimo, il proprio mondo e tutte le altre specie sia, ragionando in quantità, inversamente proporzionale al progredire del tempo; quando l’uomo pensava di essersi ormai guadagnato un posto di rilievo nel processo di evoluzione, ottiene invece di essere fortemente declassato, divenendo, piuttosto, frutto di un’involuzione dei sentimenti e dei saperi. E’ uno spiacevole contesto nel quale si sottolinea la concezione secondo cui le società sarebbero soggette ad una graduale involuzione in base alla quale una specie precedentemente costretta a vivere, o piuttosto a sopravvivere, in condizioni di isostenibile sottomissione, prende bruscamente il sopravvento su quella più progredita, determinando una regressione ciclica ed infinita.

Siamo nel 3978, le scimmie col tempo sono riuscite a rubare il sapere degli uomini, facendolo proprio ed organizzando una società che sembra parodizzare le dinamiche dell’organizzazione pubblica umana. Gli oranghi gestiscono con determinazione ferrea il potere religioso, assimilandolo a quello scientifico; i gorilla sono i violenti, i detentori della potenza e dall’amministrazione passivamente attiva della giustiza e, infine, gli scimpanzé orientano l’evoluzione delle scimmie e il loro progresso nelle tecnologie analizzando e gestendo le risorse di cui dispongono. E’ proprio in questi ultimi che un barlume di speranza per il ritorno alla normalità ancora risiede, almeno secondo Taylor. La veterinaria Zira e l’archeologo Cornelius saranno gli unici a credergli e a mettere in pericolo la loro condizione di scimpanzé, perché lui possa ritrovare il suo cammino verso la creazione di una nuova specie più degna di essere considerata umana. Le dinamiche principali scaturiscono dallo scontro tra il dottor Zaius, l’orango portavoce inemovibile dei saperi scientifico-religiosi della sua società, e il reietto Taylor; dai loro conflitti emerge la condanna al “fu” comportamento meschino degli esseri umani della generazione degli astronauti. L’immedesimazione degli uomini nelle scimmie non fa altro che rendere lo spettatore, il lettore, più cosciente delle condizioni di miseria e di sconvolgente inferiorità in cui versano i più deboli, uomini o scimmie che siano, mettendo in risalto come ingiustificabile il comportamento improbo di chi, convinto di false pretese, si crede superiore.

Mariachiara Brucculeri