Non arrendersi mai

Tutti i nostri lavori per la giornata della legalità, 21 marzo 2019, che abbiamo celebrato a scuola.

Paura

Alcune volte quando ti penso

capisco che mi hai guardata

con il tuo sguardo intenso.

Poche volte mi lasci libera

e altre mi avvolgi nella tua cattiveria;

nonostante questo,

tu potrai farmi pensare di arrendermi,

ma non mi conquisterai mai.

L’allarme della DIA: “Boss mafiosi sempre più giovani, violenti e social”.
[ fonte Repubblica, articolo del 13/02/2019]

Boss mafiosi sempre più giovani, violenti e spregiudicati. È un fatto: si abbassa e di molto l’età di iniziazione mafiosa. E le organizzazioni criminali, “nonostante la forte azione repressiva dello Stato, continuano ad attrarre le giovani generazioni”, autentica “linfa delle mafie, siano espressione diretta delle famiglie o semplice bacino di reclutamento da cui attingere manovalanza criminale”. È questo l’allarme della Direzione investigativa antimafia nella sua ultima Relazione semestrale, che sottolinea come nell’ultimo quinquennio “non solo ci siano stati casi di ‘mafiosi’ con età compresa tra i 14 e i 18 anni, ma come la fascia tra i 18 e i 40 anni abbia assunto una dimensione considerevole […]

Il fenomeno  dei boss mafiosi sempre più giovani, secondo la Dia, “[…]  non appare certamente disgiunto da una crisi sociale diffusa che, soprattutto nelle aree meridionali, non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa”. […] Una sovrapposizione, quella della presenza mafiosa e della mancanza di opportunità di lavoro, che secondo la Direzione distrettuale antimafia sembra confermare come la criminalità organizzata, riducendo l’iniziativa imprenditoriale lecita, “approfitta dello stato di bisogno di molti giovani e specula sulla manodopera locale, dando l’effimera sensazione di distribuire un salario, sempre minimo, per generare dipendenza. […]

La volontà di affrancarsi dai vecchi boss, l’ambizione di riconoscimento e di carriera  l’uso indiscriminato della violenza sono gli stilemi di”trasformazione della ‘cultura mafiosa’ che investe anche il linguaggio, al passo con i tempi, non tanto rispetto ai contenuti delle comunicazioni – sempre criptiche, imperative e cariche di violenza – quanto piuttosto per gli strumenti social utilizzati, che consentono di aggregare velocemente gli affiliati al sodalizio e, allo stesso tempo, di rendere più difficoltosa l’intercettazione dei messaggi”.

[…]“ Le donne assumono, sempre più spesso, ruoli di rilievo nella gerarchia dei clan, soprattutto in assenza dei mariti o dei figli detenuti”.

Noi seguiamo esempi diversi

Abbiamo riportato l’attualissima relazione della DIA per ricordare a tutti come la mafia sia ancora presente nella nostra società e purtroppo abbia ancora una forte influenza sui giovani, soprattutto quelli appartenenti a contesti più disagiati.

Ma la storia di cui vogliamo parlare oggi non è quella di giovani che hanno imboccato la strada sbagliata incorrendo in gravi rischi e in una vita priva degli ideali più belli, quindi misera; né quella di donne che hanno sposato il silenzio e una vita di privazioni e sofferenza.

Rita Atria, una storia di coraggio

Biografia

Mi chiamo Rita Atria, sono nata a Partanna, in provincia di Trapani, il 4 settembre 1974.  Sono cresciuta in una famiglia affiliata alla mafia: mio padre era un piccolo boss di quartiere, mia madre una donna omertosa. Nel 1985 mio padre fu ucciso dalla mafia, io avevo solo 11 anni. Mio fratello Nicola seguì le orme di nostro padre, nonostante le sue scelte, ero molto affezionata a lui, come ogni sorella più piccola che si lega al fratello più grande e lui mi confidava tutti i segreti sugli affari mafiosi nel nostro territorio. Ma anche lui mi venne portato via, fu ucciso nel 1991, perché si pensava tramasse la vendetta per l’assassinio di mio padre. 

Ispirata dalle denunce che mia cognata Piera Aiello aveva iniziato a fare alla magistratura intraprendendo un percorso come testimone di giustizia, anch’io decisi di schierarmi contro la mafia che mi aveva tolto gli affetti più cari.

Incontrai Paolo Borsellino, allora procuratore della Repubblica di Marsala, questo eroico magistrato diventò il mio punto di riferimento, una persona di famiglia, fino al punto che mi veniva naturale chiamarlo zio. Per garantirmi la protezione da chi era venuto più volte a bussare alla casa di mio padre e sapevo volesse uccidermi, zio Paolo mi fece trasferire a Roma, dove vissi sotto falsa identità.

Da quando presi la decisione di collaborare, mia madre mi disconobbe, ero diventata un disonore per la famiglia, le uniche persone che mi sostenevano erano Borsellino e mia cognata, ormai lontana perché viveva sotto copertura; per il resto ero rimasta sola.

Il 19 luglio del 1992 la mafia travolse di nuovo la mia vita con la strage di via D’Amelio in cui perse la vita Borsellino. Ero completamente a pezzi, sapevo che l’uccisione di un personaggio come zio Paolo era una vittoria per la mafia che mi avrebbe trovato e a cui non mi sarei mai arresa.

“Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà”.

 

In un momento di incoscienza decisi di volare via da questo mondo, avevo solo 17 anni.

Non mi fu fatto nemmeno il funerale, mia madre venne a distruggere la lapide con la mia foto.    

Classe 2C