Ghiaccio e argento vivo

“Dolce e chiara è la notte e senza vento”
“Davvero?”
Cosa si dovrebbe dire dopo aver fatto l’amore? Probabilmente niente, eppure quel verso era sfuggito come un soffio dalle labbra della donna. La stanza era tutta bianca: le pareti, le luci, le tende, le lenzuola. Il parquet era chiaro anch’esso e contrastava con il legno scuro del mobilio pesante, l’armadio massiccio si innalzava fino al soffitto. Non c’erano specchi, solo la grande finestra rimandava tenui riflessi, aprendosi sul balconcino. La ringhiera era in pieno stile liberty e il contrasto era forte con la struttura, costruita molto tempo prima come sede dell’Arcadia.
“Perché no?”
Lui sbuffò piano, il braccio sinistro avvolgeva il corpo della donna, appoggiata al suo petto, la mano abbandonata mollemente sul suo fianco.
“Perché è triste” e prese ad accarezzarle la coscia e il braccio, distratto. La pelle era tanto morbida sotto i suoi polpastrelli, i muscoli rilassati, ma i nervi sembravano scattare sotto il suo tocco. Lui amava il modo in cui il corpo della donna rispondeva alle sue attenzioni: vibrava, in un’attesa eccitante. Era molto bella e assolutamente consapevole di esserlo, si muoveva con un’eleganza priva di pudore e innocenza: mostrava la pelle chiara, inarcava la schiena, giocava con i capelli d’oro come spighe mature, si mordeva le labbra rosse e gonfie, era capace di guardarti nell’anima con i suoi occhi azzurri e freddi come il ghiaccio. Nel Monsieur Teste, che lei gli aveva regalato, aveva letto le parole della moglie Emilie Teste, che raccontava di come il marito la chiamasse con nomi diversi in base ai suoi desideri, bisogni. Dopo quella lettura capitava che Lui la chiamasse Venere, Oasi, Beatrice, Psiche, Vita e lei capiva e sorrideva.
“Non può essere triste, chi è riuscito a vedere una così grande bellezza nella natura, nonostante il male immenso, non può… Tu chi avresti citato?”
“Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore…”
“È così che ti senti quando sei a letto con me? Morto?” Il tono della donna era divertito, la bocca tirata in un sorrisetto sarcastico, ma sentiva un nodo in gola e una fitta sottile di dolore: sapeva cosa rappresentasse per lui quell’ode.
“No, non morto: mortale. Dopo aver fatto l’amore con te, mentre ti ho accanto, godo del sapore della tua pelle bollente, del profumo intenso dei tuoi capelli, del soffio caldo del tuo respiro e mi sento vivo, come tu sei viva accanto a me. Allora capisco quanto in realtà io sia misero, finito, mortale. Non sono eterno e me lo ricordo sempre dopo, perché mentre facciamo l’amore mi dimentico e mi sento infinito.”
La donna si era alzata un po’, facendo leva col braccio e appoggiandosi sul gomito, per guardare l’uomo che amava negli occhi grigi e caldi come argento vivo. Aveva i capelli un po’ lunghi, da giorni ripeteva che doveva andare a tagliarli, ma a lei piacevano così, la barba corta gli copriva il mento e parte delle guance. Gli occhiali, che portava sempre appoggiati alla radice del naso e che spostava in avanti per leggere da vicino, erano abbandonati sul comodino, bruscamente tolti e malamente lanciati vicino all’abat-jour, prima di poter ostacolare i baci. Lui non si era mai visto bello, eppure lo era, nonostante il naso rosso di raffreddore, era in qualche modo estremamente affascinante e possedeva un certo charme sottile. Nei suoi gesti risiedeva tutta la galanteria delle epoche passate, era gentile, ma con fermezza e decisione. La sua voce lo rendeva incredibilmente interessante: il timbro basso, baritonale. La sua voce, carezzevole e morbida, faceva vibrare quelle corde dell’anima nascoste più in profondità.
“Tu mi fai dimenticare la morte” era stato talmente sincero da risultare brutale. Aveva pronunciato quelle parole fissando il soffitto, con una calma disarmante, come se fosse totalmente sereno, con la stessa leggerezza con cui non aveva mai smesso di muovere la mancina. Intanto la donna sopra di lui era sconvolta, dilaniata quasi dalla violenza delle emozioni che si rincorrevano furiose in lei. Sorrideva, sempre quando guardava lui, e piangeva. Una lacrima cadde sulla spalla dell’uomo che solo allora si voltò a guardarla. Sorrideva anche lui, divertito da tanto sentimentalismo, che riteneva spregevole. Si mosse a lambire con la lingua le gocce salate ancora sulle guance e incastrate agli angoli della bocca, poi prese a baciarle la bocca e le guance, con la stessa dolcezza con cui aveva fatto sparire quelle perle bagnate di commozione. Infine si spostò di nuovo sopra di lei, sovrastandola, scaricando il suo peso sul braccio, per non gravarle addosso. Girò il volto per soffiarle nell’orecchio: “Comunque è l’endecasillabo più bello di tutta la letteratura italiana” e poi tornò a sprofondare nell’incavo del suo collo, cullato dalle dita di lei, incastrate nei suoi capelli.

di Mathilda Moon 5^F
(Il Giornalotto del Liceo Volta, numero3/2019)