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Uniti di vince, divisi si perde: sui binari di un’Europa Unita

Sulle ceneri di una guerra logorante, pagata a caro prezzo da almeno 10 milioni di innocenti, quarantadue Paesi fondano un organismo sovranazionale, al fine di soffocare definitivamente lo spettro di nuovi conflitti: la Società delle Nazioni. Siamo nel 1920.

Un tentativo coraggioso, da parte delle potenze vincitrici, soprattutto, di costituire un alone di pace tra gli Stati del mondo; sforzo che, però, si rivela ben presto vano. Gli Stati non riescono a cooperare tra loro in nome di una serena rappacificazione: numerosi sono gli strascichi del primo conflitto mondiale e profondo è il sentimento di rivalsa che riecheggia nell’aria. Tale tensione culmina nel 1939: si apre un’altra stagione di guerre, uno scontro ancora una volta ingigantitosi ed estesosi a livello internazionale.

1944, Dumbarton Oaks (Washington): è in germe la costituzione di un’altra organizzazione mondiale, che funga da garante ad un benessere duraturo tra gli Stati del mondo. Il 26 giugno 1945, la città di San Francisco vede la nascita dell’ONU: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Certo, dopo un conflitto di tale portata (il bilancio delle morti ammonta a 55 milioni, di cui il 60% composto dalla popolazione civile) e di tale incidenza per la crudeltà mostrata (la “Shoah” deve fungere da monito per avvedercene), parlare di nazioni “unite” appare quasi sarcastico, derisorio. Eppure, l’organismo si propone fin da subito un imperativo: favorire, congiuntamente, la sicurezza tra le nazioni, oltre che combattere unitariamente le difficoltà dilaganti della povertà, dell’analfabetismo, delle malattie, della violazione dei diritti umani, del degrado ambientale; tutte promesse suggellate dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, consapevolezza concreta della volontà di non rivivere mai più i soprusi e i tormenti derivanti dalla Seconda guerra mondiale.

Nella relativa tranquillità del secondo dopoguerra (spezzata in primis dal comunismo imperante nei Paesi dell’Europa dell’Est) a irrompere prepotentemente ci pensano le due potenze atomiche mondiali: l’Unione Sovietica e gli USA. Inizia la guerra fredda (e menomale, altrimenti Internet chi lo avrebbe creato?). La contrapposizione tra i due blocchi rivali viene stroncata, almeno formalmente, dalle riforme di Gorbaciov, che contribuisce alla dissoluzione dell’URSS.

Accantonata la minaccia di controversie dalla portata mondiale, i Paesi occidentali, guidati da statisti temerari come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Robert Schuman e Winston Churchill, iniziano a far trapelare la convinzione di voler porre fine ad ogni forma di antagonismo e rivalità tra le nazioni del mondo. E’ proprio il francese Robert Schuman che, nel 1950, si fa portavoce di una nuova idea, la prima, che richiami ad un concetto chiave: comunità, attraverso la proposta dell’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Inizia ad apparire concretamente il termine “Europa”. In realtà, svariate volte nel corso della storia questo nome ha risuonato, nelle più variegate vesti: già nell’Ottocento Giuseppe Mazzini fonda la “Giovine Europa”, in Svizzera, con l’intento di instaurare una alleanza rivoluzionaria tra i popoli europei; o ancora, l’italiano Carlo Cattaneo delineava un processo di integrazione europea, sostenuto dalla formazione degli “Stati Uniti Italiani”, a cui avrebbe seguito l’istituzione di uno Stato federale europeo. Significativo, in Italia, è stato l’intervento di Altiero Spinelli con il suo “Manifesto di Ventotene”, “Per un’Europa libera e unita”, divenuto una pietra miliare fondata sui concetti di pace e libertà kantiana, al fine di mobilitare le popolazioni attive, per un’Europa fondata sui principi di pace. Esso getterà poi le basi per i futuri trattati sull’Unione Europea.

Tuttavia, il concetto di “Unione Europea” così come lo conosciamo oggi si è realizzato sulla base di una consapevolezza attiva, in grado di scardinare la minaccia della conflittualità tra i Paesi che popolano il mondo. E tale impegno è garantito da documenti scritti: il 7 febbraio 1992 viene firmato il Trattato sull’Unione Europea, la cui parola cardine è una: unione. Il Trattato, infatti, stabilisce un’unione monetaria, politica e sociale, scandagliando tutti quei punti che attualmente appaiono i più controversi da gestire e risolvere, nella nostra comunità europea.

Nel 2007 già ventisette Stati aderiscono all’Unione Europea; nel 2019, il suo processo di espansione non si è ancora arrestato.

Da qualche decennio, dunque, siamo diventati cittadini europei. La questione dovrebbe interessarci, poiché siamo noi le molecole di questo grande atomo; siamo parte di una realtà economica, politica e sociale comune, e insieme combattiamo contro i problemi persistenti nelle aree più svantaggiate del mondo. Il nostro scopo è quello di veicolare messaggi di pace, o almeno di non violenza; di diffondere sentimenti di giustizia, legalità, tolleranza, inclusione. Ma la domanda è: ci sentiamo realmente cittadini europei? Ci percepiamo come membri di una comunità e, in quanto tali, gravati da responsabilità e doveri che ognuno, nella propria individualità, deve portare a compimento? La risposta non dovrebbe suscitare tanto scandalo. E temo proprio che batta con queste parole: “no, o almeno non tutti, non sempre, solo una minoranza”. Cosa facciamo nel nostro piccolo per contribuire agli obiettivi della nostra Unione, tanto anelata dai suoi padri fondatori?

Gli strumenti offertici si rivelano di grande importanza al fine di esprimere la nostra opinione sulle scelte politiche, economiche e sociali dei Paesi membri; uno tra essi è il diritto di voto. Noi, cittadini europei, possediamo il diritto di votare e di candidarci alle elezioni del Parlamento europeo. Possiamo avanzare proposte legislative, pagando un prezzo relativamente basso: la raccolta di un milione di firme di persone di almeno sette Stati membri dell’UE. Non solo, siamo anche tutelati da una vera e propria Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sancisce 54 diritti che ci spettano in quanto membri della comunità. Tra questi, c’è il diritto (e il dovere) più grande che ci possa essere garantito: la parola. Se c’è possibilità di parola, c’è libertà. Noi siamo cittadini europei, e pure liberi, perché lo strumento della parola ci è concesso.

L’Europa non allude ad una espressione geografica, bensì ad una unione tra Stati. Questa affermazione lascia presagire quale sia il compito che ciascun individuo, facente parte di uno Stato membro, deve assolvere. «Noi non coalizziamo Stati, ma uniamo uomini» scriveva Jean Monnet nel 1952. Il termine “unione” sta ad indicare proprio il congiunto coinvolgimento attivo, che deve essere radicato in tutti i più piccoli meandri delle stratificazioni sociali, se si auspica ad un rafforzamento degli obiettivi comuni prefissati. Certo, questi ultimi evolvono di pari passo allo sviluppo di nuove realtà economiche, politiche e/o sociali, e nell’Europa attuale, variegate sono queste dimensioni.

Il noto fenomeno della globalizzazione ha inciso notevolmente sullo sviluppo europeo: le distanze tra i Paesi si sono azzerate, i processi telecomunicativi si sono snelliti, pervenendo quindi ad uno dei più importanti obiettivi dell’Unione: promuovere il progresso scientifico e tecnologico. Passi in avanti, dunque, sono stati fatti; nuove culture si uniscono, e chissà se questo potrà portare, alla fine dei conti, ad una piena accettazione del diverso, ad una radicale propensione all’accoglienza di pensieri discordi dai nostri, così da dirci davvero “un’Europa unita”.

Tuttavia, sembriamo essere lontani da questo traguardo. I giornali e i telegiornali ci mostrano una realtà spietata, all’insegna dell’odio e della violenza. Emergono vocaboli nuovi (o forse non tanto): “xenofobia”, “razzismo”. La paura del diverso dilaga senza sosta, si impone ferocemente; e la maggior parte degli individui si lascia avvinghiare dalla sua morsa, nonostante il monito della storia ci ricordi la ferocia delle leggi razziali in Italia e il genocidio della popolazione ebraica. Il respingimento di decine di “navi giocattolo” e dei loro passeggeri, che, immersi noi nella nostra concezione crudamente nazionalistica, destiniamo alla morte, ne è oggi la chiave di lettura più attuale per descrivere la nostra Europa. E se li accettiamo, diventano forza-lavoro utile per la raccolta di pomodori, e li facciamo crogiolare al sole per ore, fino alla morte. Uno in meno: ce ne sono tanti.

Non si può, però, negare l’esistenza di una multiculturalità all’interno dell’Unione Europea. Necessario è preservare la propria cultura, con le sue tradizioni, i suoi valori, le sue usanze, i suoi riti, la sua lingua, i suoi usi e costumi; altrettanto fondamentale è confrontarsi con ciò che è differente da quello che siamo soliti vedere, sentire, percepire. Solo da un sano avvicinamento all’altro possiamo ricostruire gli ideali di un’Unione, libera e consapevole.

Preconizzare un preciso scenario dell’Europa futura è azzardato. Sappiamo che diverse sono le difficoltà, tante che si inizia a percepire una sorta di euroscettismo imperante in alcuni Stati europei. Il Regno Unito funge da emblema a questa situazione; speriamo solo che la Brexit non stravolga le coordinate politiche, economiche e sociali dell’intera Europa. Gli antieuropeisti, in un’epoca di conflittualità, seppur implicita (mica tanto, vedi la situazione geopolitica compromessa dall’affacciarsi di una nuova potenza mondiale, la Cina, il predominio della Russia sull’Ucraina, e la situazione in Medio Oriente, quotidiano teatro di violenti crimini contro l’umanità e di guerra) sembrano moltiplicarsi vertiginosamente. E questo sentimento di avversione nei confronti di un’Europa unita è contagioso. Nel marzo 2014 un articolo della Repubblica recitava così: “L’Europa, cioè, si è trasformata in un soggetto freddo, lontano. Una moneta senza Stato e senza politica. Senza identità e senza passione. È stata percepita, dunque, come un problema più che una risorsa. Un Grande Esattore, senza volto, se non quello della Merkel (e delle Banche), che esige senza garantire nulla.”

“Uniti si vince, divisi si perde”. Così scriveva il presidente Donald Tusk ai 27 capi di Stato o di governo dell’UE sul futuro dell’UE, appena due anni fa. E questo perché l’emergenza di un’Europa unita è fortemente sentita, anelata; noi, cittadini europei, abbiamo il diritto e il dovere di garantire un sistema di pace duraturo, alieno da ogni violenza o desiderio di prevaricazione sull’altro. E la nostra volontà di partecipazione attiva si dispiega in numerose forme, anche in quelle, apparentemente, più banali. La sedicenne Greta Thunberg, tanto citata e, aggiungerei, criticata, dalla maggior parte dei vertici mondiali, ha ottenuto qualcosa dalle sue proteste. Ciò dimostra che noi possiamo essere ascoltati, capiti e accolti. Il sacrificio è evidente (se pensiamo che per far arrivare le nostre parole all’Europa dovremmo scioperare ogni venerdì di fronte al Parlamento svedese), ma, nella maggior parte dei casi, dà i suoi frutti. L’albero della pace si radica poco a poco, con il seme gettato da ogni cittadino prima mondiale, e poi europeo. Solo così si potrà ricostituire un vero ideale d’Europa, che non sia soltanto una mera organizzazione di Stati, ma un’unione sentita nell’animo collettivo. L’Europa ci dà stabilità, futuro, prosperità, poiché tali erano i principi sui quali si fonda, tale è l’embrione dal quale è poi nata, sulle macerie di due conflitti mondiali, che avevano gettato il mondo in una spirale di distruzione e violenza apparentemente irreversibile.

“Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino, si precisino e si animino in una sintesi superiore, rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale. Potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva quale appare in certi periodi del suo declino il Sacro Romano Impero.” Queste parole di Alcide De Gasperi risuonano quanto mai attuali, e bisognose di attenzione nella tenaglia in cui siamo intrappolati oggi, cittadini europei, alle prese con un’unica parola: conflittualità. E quel momento di “declino” è arrivato: siamo arrivati al famoso momento in cui l’Europa ci appare “una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva”.

Noi siamo cittadini europei e nella nostra mente deve echeggiare un solo vocabolo: integrazione. “rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”. Fusione delle nostre forze. Per un mondo più giusto, equo, solidale. Oggi siamo chiamati ad una scelta: competere o cooperare. I Padri fondatori si mossero su quest’ultima scia: non tradiamo le loro aspirazioni; albergano, remoti, Padri rinnovatori e portatori di pace in ognuno di noi. Basta solo farli emergere.

di Roberta Clemente