25 dicembre. Racconto di Natale

Quel pomeriggio di un freddo 25 dicembre sembrava volare via allegro, come le risate dei due ragazzi nella neve, che si lanciavano contro piccole palle per gioco. Avevano i giacconi imbiancati, le mani rosse dal gelo e gli occhi che brillavano. Quelli di Theo erano chiari e freddi e fiorivano da una pelle chiara cosparsa di lentiggini. Lo sguardo di Jack invece ballava ad un ritmo sfrenato e i suoi unici limiti erano la sua carnagione forte e scura. I fiocchi di neve abbracciavano indifferentemente i sottili capelli rossi del primo e quelli crespi e robusti dell’altro. La natura sembrava sospesa nell’attimo, ferma ad osservare come la lotta dei due stesse tramutandosi in una danza sulla propria veste. Poco distante dai ragazzi, un individuo si avvicinava a grandi passi falciando con un’indolenza detestabile le audaci erbe che anche quel giorno prosperavano nonostante il peso della neve. Persino i fiocchi si curavano di scansarsi da quell’uomo. Arrivato in prossimità dei giovani, l’uomo afferrò Theo per un braccio e lo strattonò con decisione dentro una lussuosa macchina dai finestrini oscurati. Poi sbatté lo sportello e partì ingranando la marcia. Jack rimase a fissare il suo migliore amico che si allontanava in una nube nera.
Intanto, seduto su un sedile foderato in pelle d’ermellino, Theo attendeva tremando, ma non senza una punta di risentimento pronto ad eruttare, che l’uomo tagliasse quel silenzio glaciale.
– Tua madre non sarà contenta. Sono anni che ti proibiamo di frequentare determinati soggetti, e tu puntualmente continui a disobbedire. Come puoi non comprendere la ragione delle nostre decisioni, Theo? Come puoi non comprendere che tutto ciò per cui agiamo lo facciamo per il tuo bene, per proteggere il tuo roseo futuro? –
– Mi dispiace, Edmund –
Altre parole, che sarebbero state ben più dirette e sentite di quelle usate dal padre, non uscirono dalle labbra di Theo, ma il suo sangue ribolliva e la sua lingua fremeva d’ira a sentir parlare in tal modo del suo migliore amico.
Giunti a casa, la tavola era già imbandita per la cena. Uno sfarzoso lampadario in cristallo illuminava i candelabri posti ovunque nella villa; l’immenso abete svettava imponente sull’oceano di regali, come un imperatore sui suoi sudditi. Theo rabbrividì. Sua madre fece la sua entrata nella sala, abbracciò il figlio e diede un bacio casto al marito.
Poco più tardi cominciò l’afflusso di massa dei parenti. Theo dovette salutare facce del tutto ignote e gelide, indicare loro cortesemente il posto da occupare al tavolo e rispondere a domande delle quali avrebbe fatto volentieri a meno; il tutto condito con sorrisi forzati e ipocriti. Quando si diede inizio al cenone natalizio, il brusio sommesso si amplificò, dando inizio ad un cacofonico ammassarsi di voci che martellava spietato nella testa del ragazzo rosso. Non riusciva a comprendere il senso di quella sera in cui doveva fingere di amare persone a lui straniere, per poi continuare ad ignorarsi il resto dell’anno. Non capiva il motivo di tutto quello spreco, di quello sfarzo quasi barocco. Mentre i suoi pensieri galoppavano furiosi in questa direzione, studiava il suo piatto vuoto simile alle conversazioni che stavano avendo luogo a tavola in quel momento. Alzò lo sguardo e vide il prozio Alfred che porgeva ad un servitore un piatto stracolmo del pollo cucinato quella mattina dai tre cuochi migliori d’Irlanda e ai quali Theo aveva persino dato una mano a speziare le varie portate, senza neanche guardarlo. La fine prossima di quella pietanza tanto curata sarebbe stata l’immondizia. Nel frattempo la piccola Rosaline, di tre anni, giocava con il purè preparato apposta per lei, immergendoci le mani e rovesciandolo in terra, mentre la zia Abigail che la teneva in braccio rideva di gusto. Non potendo reggere oltre, l’animo del ragazzo si infiammò e il suo viso divenne dello stesso colore dei suoi capelli. Prese un vassoio che conteneva un grosso branzino e si alzò da tavola, senza che nessuno si accorgesse della sua assenza. Uscì di casa sbattendo il portone.
Fuori la neve cadeva risolutamente, ma non bastava a distogliere Theo dalla sua meta, anzi lo spronava maggiormente. Incurante del vento che gli soffiava contro, aveva un solo luogo in mente verso cui dirigersi. Arrivato ad una piccola casa di legno, notò che mancava il campanello, così bussò tre colpi alla porta. Fu il sorriso di Jack ad aprirgli. Appena mise piede all’interno, fu percorso da un brivido di freddo. Jack non si poteva permettere una stufa. Stretti attorno ad un tavolino in legno, il fratellino di Jack, sua madre e Jack stesso si spartivano quel poco di polenta con la quale neanche Rosaline avrebbe potuto trarre alcuna soddisfazione. La madre del ragazzo di colore, la donna più forte che il rosso avesse mai avuto l’onore di incontrare, si tolse la coperta che la copriva e la mise sulle spalle di Theo. Theo poggiò il branzino sul tavolo e gli occhi dei tre si sgranarono: probabilmente il fratellino di Jack non aveva mai visto tanto cibo in una sola volta. Poi, senza dire una parola, si volsero verso Theo, ringraziandolo cogli occhi. La madre lo invitò a sedersi con loro e così fece. E anche nei discorsi vuoti tanto quanto quelli dei suoi familiari si percepiva una nota di amore che risaltava ogni parola e che le dava un senso. E in queste parole vuote Theo e Jack passarono insieme il loro primo Natale.
Gemma Petri / Liceo Classico Galileo di Firenze