25 – Racconto

A volte si tratta solo di trovare un compromesso alla monotona vita di tutti i giorni, altre di trovarsi per caso ad ascoltare una “banale” storia sulla propria infanzia.
Quella domenica mattina suonò la sveglia mentre la pioggia batteva incessante sulla finestra di camera: le gocce scorrevano rapide sul vetro che, a causa del calore interno della stanza, si era completamente appannato, rendendo umida l’aria della stanza .
«Laura, svegliati, devi studiare per il compito di domain…» furono le parole con cui mia mamma fece irruzione nella mia camera.
«Altri cinque minuti, dai mamma…» protestai inutilmente.
«No. Alzati!»
E così mi alzai controvoglia dalle calde coperte, procedendo, con passo assonnato, verso la cucina, per fare colazione. Dopo aver consumato qualcosa come dieci biscotti, capii che era ora di togliersi il pigiama e iniziare a studiare.
«Lau, noi usciamo. Torniamo per pranzo, mi raccomando» mi salutò babbo, poi uscirono. Io, dopo essermi cambiata, mi sedetti alla scrivania,fissando quella strana filosofia, senza capirci nulla, un po’ per scarso interesse, un po’ per stanchezza e un po’ per presa di posizione: lo stoicismo non mi interessava, quindi non aveva senso studiarlo. Dopo una mezz’ora passata a fissare inutilmente quegli inutili appunti, capii che sarebbe stato inutile continuare a stare lì: non avevo voglia di studiare filosofia, o meglio, non avevo voglia di studiare in generale.
Mi alzai, tornai in cucina a vedere cosa avrei potuto fare per pranzo: guardai nel frigorifero, qualcosa di commestibile c’era, quindi a digiuno non saremmo stati. Era iniziato in modo strano quel giorno: la pioggia, il freddo, i miei genitori che uscivano con la pioggia, io che non studiavo, io che non avevo voglia di fare niente. Mi buttai sul divano, accesi la tv, niente. Non c’era niente di interessante, al solito. Il muro, con su appesi i vinili dei Pink Floyd e dei Dire Straits, era molto più attraente. Passai svariati minuti a fissare il vuoto; avevo bisogno di dare un senso a quella giornata, per me era ed è tuttora uno strazio stare ferma a non fare nulla. Svogliata, decisi di prendere il mano il cellulare e mettermi a giocare a qualcosa: accesi il display, vidi l’ora: 12:30. I miei stavano per tornare e io non avevo neppure preparato il pranzo… non ne sarebbero stati felici. Mi alzai di scatto dal divano, mi sentii mancare il pavimento sotto i piedi, mi ributtai a sedere. Dopo qualche minuto mi alzai di nuovo, stavolta lentamente, andai in cucina, apparecchiai, misi a bollire l’acqua per la pasta mentre nella mia mente si stavano mescolando i più vari pensieri. «Io non capisco” mi dissi tra me e me «perché i giorni devono essere tutti così dannatamente uguali? Scuola per tutta la settimana, nel week-end c’è da studiare; oltre a quello non si riesce a fare altro. Okay, sì, a volte esco, ma senza che i compiti siano finiti, poi mi interrogano, va male, mi arrabbio, mi prometto e riprometto che non mi ridurrò più all’ultimo a studiare filosofia ma, puntualmente, ogni settimana, sono punto a capo…» Mentre riflettevo tra me e me, provavo anche a trovare una scusa plausibile con i miei per spiegare come mai non avessi preparato il pranzo: l’aprirsi della porta mi colse di sorpresa, ero a mani vuote, né pranzo né scuse. I miei entrarono in casa, erano asciutti, questo significava che nemmeno mi ero accorta che fosse smesso di piovere.
«Mamma senti, ho finito di studiare ora e non ce l’ho fatta a preparare» dissi subito a mamma, per evitare inutili e scontate discussioni. Mamma alzò gli occhi al cielo: «Ti pareva… va beh, fa nulla. Mangeremo la pasta, poi ci arrangeremo.» Rimasi stupita da quella risposta, mi aspettavo una polemica infinita, meglio così in fondo. Loro andarono in camera a cambiarsi, io scolai la pasta: dovevamo mangiare relativamente veloce, alle 15 giocava la Viola e dovevamo andarla a vedere da amici.
Mangiammo in fretta poi, mentre mamma rimetteva a posto la cucina, io e babbo andammo a prepararci: ero svogliata pur trattandosi della Fiorentina, ciò era grave, molto grave. Tra una cosa e un’altra, finiamo di prepararci alle 14:30, così ora dovevamo partire in fretta e furia, come nostra consuetudine. Partiti, dopo nemmeno un kilometro, finimmo nell’ingorgo causato dallo stadio, nella felicità generale di mio padre. Ci volle quasi un’ora per percorrere i 6 kilometri che separano la nostra casa da quella dei nostri amici.
Arrivati, babbo parcheggiò nel loro cortile, e entrammo in casa precisamente al fischio d’inizio: Fiorentina – Crotone, 31 marzo 2018, se avessimo vinto, sarebbe stata la terza vittoria di seguito dopo la scomparsa del capitano. Entrati nel loro salotto, dopo averli salutati, mi stravaccai sbuffando sul divano, non avevo voglia di nulla.
La partita entrò subito nel vivo e il gol di Simeone, dopo appena 3 minuti di gioco, mi diede una scarica di energia, che però, si spense assai velocemente: il gioco era diventato piatto, nessun gol, nessuna azione particolarmente importante. Intervallo, merenda, due chiacchiere con Chiara, fischio di inizio del secondo tempo, noia.
Tutto era destinato a cambiare al 62°, Chiesa. Quel ragazzo che mi aveva sempre tanto affascinato, con quel 25 sulla schiena, spedì il pallone in rete: 2-0. Mi alzai in piedi, avevo le lacrime agli occhi. Salati al collo della mia amica, poi, passati quei momenti di follia, mi rimasi a sedere, con le guance rigate di pianto e con la stessa noia che mi accompagnava dalla mattina stessa.
«Sei proprio giù oggi, eh?» mi disse mio babbo guardandomi, «Nemmeno Fede che segna ti riesce a far tornare il sorriso?»
Lo guardai perplessa «Babbo, è solo un gol, nulla di che…» risposi, abbozzando una risatina, «è solo un gol…»
«Solo un gol, eh?» babbo stava ridendo, «mi sa che mi tocca dirtelo, visto che è “solo un gol”…»
Lo fissai, non capendo a cosa potesse riferirsi.
«Ti ricordi quando, a quattro anni, sei caduta per le scale dai nonni? Insomma, quando ti hanno messo diciotto punti alla testa…» continuai a fissarlo, cosa ci poteva mai entrare quello con il gol di Federico Chiesa? «Ti portarono di urgenza al Mayer e lì sei stata per una settimana. Ecco, quando venni a pagare il ticket, davanti alla macchinetta adibita a quello scopo, mentre stavo per inserire i soldi, sentii che un uomo mi stava chiedendo una mano, poiché non riusciva a far funzionare l’apparecchio. Quando mi sono voltato verso di lui, mi somo trovato di fronte Enrico Chiesa, il babbo di, come lo chiami tu, “Fede”». Quelle parole mi avevano isolato dal resto della stanza.
«Babbo, mi prendi in giro, vero?» mio padre iniziò a ridere.
«No. Non sto scherzando. Lo aiutai a pagare il ticket, senza fare troppe domande. Poi, dopo avermi ringraziato, mi chiese cosa fosse successo, quindi gli raccontai di te che eri caduta dalle scale; lui mi disse che suo figlio, poco più grande di te, si era rotto una gamba giocando a calcio.» sempre più stupita, provai ad aprire bocca. «Zitta» mi fece mio padre, prima ancora che potessi dire una sola parola, «Zitta, che il bello deve ancor venire. Eravate in due camere sullo stesso piano e entrambi dovevate tornare a casa. Usciti ognuno dalla propria stanza, ci hai camminato un poco accanto in corridoio, anche se aveva le stampelle, camminava comunque più velocemente di te, mentre gli sorridevi con l’innocenza di una bambina di quattro anni.»
Guardai immobile mio babbo,non poteva essere vero. Mi voltai a guardare mamma, mentre Chiara e i suoi genitori mi guardavano sorridendo. Mi accorsi solo allora che la mia faccia si era contratta in una smorfia felice. La partita era finita: 2-0, mi alzai in piedi, iniziai a saltare per la gioia, la felicità mi era tornata dentro così, all’improvviso: quel 25 aveva portato via ogni ombra di quella “patetica” e “monotona” domenica.
Lui non si ricorderà mai di me, ne sono più che consapevole; ma non riesco a non pensare che, nella sua testa, ci sia rimasto un piccolo ricordo di quella bambina con i capelli biondi e con quell’enorme cerotto blu sulla fronte.
Laura Cappelli
Classe / Liceo Classico Galileo di Firenze