Fare il primo passo – Racconto

Morire è noioso.
Seriamente, piuttosto fatevi un giro sulla giostra o correte in un parco, ma vi prego, non abbiate alcuna fretta di morire.
Vi stuferete cinque secondi dopo, ve lo giuro.
Starete solo in un lungo, lunghissimo corridoio senza fine e camminerete, camminerete rivedendo ogni singola scena della vostra vita, tutte le volte che lo volete.
Per l’eternità.
Come in una tv in cui funziona un solo programma a sequenza ripetitiva e a te non resta che rimanere lì a fissarlo ad occhi spalancati, senza sapere cos’altro fare.
Se non vi va di far questo, potrete sedervi su una poltrona in velluto rosso e stare lì, ad annoiarvi comunque.
Nel mio corridoio mi mancano due passi e ricomincerà la storia della mia vita, quindi se volete potete accomodarvi da qualche parte e ascoltate con me, se vi va.
Tutto ebbe inizio in una tranquilla e fredda giornata d’ottobre, più precisamente l’undici, quando in una sala d’ospedale un piccolo bambino decise di nascere con ben una settimana di ritardo dalla data prevista.
Il piccolo uscì urlante dalla pancia di sua madre e i suoi amorevoli genitori gli affibbiarono il nome di Filippo, per non so quale loro amico.
Quel bambino che ora vedete agitarsi in quel lettino come avrete capito era mio fratello.
Che c’è? Non mi guardate male.
Va bene, va bene, ero io.
Passai così accudito i miei successivi anni di vita e crescevo, crescevo sempre più tanto che alle elementari ero il più alto tra tutti i bambini della mia classe.
Avevo anche un migliore amico, si chiamava Riccardo. Insieme condividevamo tutto, soprattutto le partite a carte al mare d’estate.
Così è andata per un po’ di tempo fino alla seconda media, più o meno.
Era un periodo complicato, tra le difficoltà a scuola, i nuovi amici e la mia vita in generale.
Mi sembrava che nulla importasse davvero, che fossimo solo mere esistenze senza uno scopo e quindi, che senso aveva studiare in tutto questo?
Fu lì che in un pomeriggio, dopo essere uscito con i miei amici, il mio migliore amico Riccardo baciò Vanessa, una nostra compagna di classe, e mi resi conto che avrei voluto anch’io baciare qualcuno.
Lì per lì lo pensavo solo come un gesto finalizzato a ciò che mi sembrava come un rito di iniziazione per l’età adulta o qualcosa del genere, ma in fondo, perdonatemi, avevo dodici anni e l’amore lo stavo appena conoscendo.
Comunque sia, a dicembre di quello stesso anno baciai Margherita, una mia cara amica: ci fidanzammo e ci lasciammo nel giro di tre giorni.
A lei si susseguirono altre ragazze, sempre così, ma sinceramente neanche mi interessava più di tanto.
Fu forse quello il mio errore, non considerare quelle ragazze quando mi pregavano, addirittura, di innamorarmi di loro.
Vorrei dire che cambiai e mi dimostrai meno cinico, ma la realtà è molto diversa.
Continuai così circondato da quelli che credevo fossero miei amici, soprattutto Riccardo, il mio migliore amico. Non m’importava modificare qualcosa, il mondo mi piaceva esattamente così com’era.
Ma si sa, tutto cambia prima o poi e a me successe al mio ingresso al liceo.
Non conoscevo nessuno, Riccardo non c’era e io rimasi semplicemente in un angolo, aspettando stupidamente che qualcuno venisse a parlarmi.
Nessuno lo fece, neppure Lucia, una ragazza con cui ero stato fidanzato per ben otto minuti.
Ammetto di essere stato crudele con lei, ma il mio quattordicenne di allora non se ne rendeva conto.
Mi sembrava un affronto personale e non capivo perché non interessassi a nessuno.
Quel giorno sarei tornato a casa lamentandomi che la scuola era brutta e i compagni antipatici.
In effetti vedendo ciò che successe dopo, non avevo nemmeno tutti i torti.
Le giornate passavano lunghe, lunghissime, non finivano mai.
Passavo il tempo ad annoiarmi.
I compagni non mi parlavano, quindi mi annoiavo.
I libri erano grandi, grossi e cattivi, quindi mi annoiavo.
I professori erano alti, troppo alti e davano i voti, quindi oltre ad annoiarmi, mi toccava anche ogni tanto aprire i libri e annoiarmi ancora di più.
Fu lì credo che iniziarono a considerarmi strano, ma era semplicemente che mi rifiutavo di affrontare anche solo una minima difficoltà.
O più semplicemente mi rifiutavo di cambiare.
Cominciarono i piccoli scherzi nei corridoi, le merende e i libri spariti magicamente e le battutine che mi risuonavano nelle orecchie anche se mi sforzavo di non ascoltarle.
Poi il mio compagno di banco, un alto ragazzo dai capelli color cioccolata, decise di spostarsi e mi lasciò solo.
Mi dissi che non importava, che cosa mai poteva essere? Forse si era semplicemente stufato di essere ignorato. Eppure, ci pensai lo stesso.
Solo in quel momento, quando ormai per tutti non ero solo che un ragazzo invisibile da stuzzicare, mi resi conto di voler cambiare.
Ma le etichette, mi resi conto subito, erano difficili da togliere.
Provai a parlare con tutti, ma a nessuno importava parlare con me.
Se possibile, cominciarono davvero a prendermi in giro.
Ero quello strano e non potevo farci nulla.
Dov’erano finite le ragazzine che mi andavano dietro alle medie? Me lo chiesi più volte.
Anche Riccardo era sparito e la compagnia delle medie era sciolta e davvero mi sentii più solo che mai.
Non mi ero mai reso conto che davvero ciò che facevo poteva condizionare quello che gli altri avrebbero fatto a me.
Avevo sempre tutto lasciato al caso, senza impegnarmi in nulla, né con gli amici né con la mia famiglia e ancora meno con la scuola.
E ora non sapevo come rimediare.
Perché non sempre le persone, quando tu decidi di cambiare, accettano di permettertelo.
Le prese in giro si fecero più pesanti e io rimanevo zitto in silenzio, senza reagire.
Avrei dovuto dirlo ai miei, a pensarci ora.
Così passò la prima liceo e arrivò la seconda.
Ancora più difficile e complicata.
I professori dicevano che me ne stavo troppo per conto mio, che non socializzavo, che non mi applicavo e io non sapevo cosa rispondere alle accuse dei miei genitori.
Iniziarono in questo modo i problemi anche a casa, con i miei che urlavano e io che mi mettevo le cuffie, tagliando fuori il mondo.
La musica era una delle cose meno noiose che avessi, dovevo ammettere.
Mi estraniavo da tutto e mi facilitava il compito di cercare di sopravvivere.
In terza liceo, contro tutte le mie aspettative, mi fidanzai, ma a quanto pare non avevo ancora imparato abbastanza.
Finii per ignorarla oppure per starle troppo appiccicato, terrorizzato dal fatto che mi lasciasse e alla fine l’amore sfumò, trasformato ormai in gelosia possessiva.
Esagerai, ora lo ammetto, e Gemma finì per lasciarmi.
Ricominciarono le prese in giro, sempre più forti, sempre più brutte e a fine di quell’anno, finii per avere un attacco di panico in classe.
Non sapevo come reagire, non sapevo cosa fare e perciò mi chiusi in un muto silenzio.
I miei genitori non capivano che mi succedesse e neanche io lo capivo.
Mi sentivo solo, confuso e un sacco di altri sentimenti insieme che non riuscivo a decifrare.
Gli attacchi di panico aumentarono, mentre davvero nessuno aveva pietà di me, come io non l’avevo avuta di loro, tanti anni prima.
Ero nel mezzo tra sensi di colpa, sempre più forti e pressanti, il sentirmi un fantasma e le loro parole che mi ronzavano in testa pungendomi, come vespe.
Un giorno, un pomeriggio per precisare, smisi di pensarci e semplicemente mi buttai.
Il vento scorreva veloce sul mio corpo leggero e dalle mie labbra non uscì neanche un gemito.
L’impatto con il cemento fu duro, ma lo ricordo appena, perché poi, tutto si spense.
È così che mi sono ritrovato quaggiù, in questo corridoio pieno di ricordi e ora capisco davvero qual è stata la mia realtà.
Ho fatto tanti errori, lo ammetto, ne sono pienamente consapevole e allo stesso tempo, tanta gente, molta senza neanche un motivo, ha voluto distruggermi.
È questo che vorrei dire loro per una volta: tutti hanno le proprie battaglie, ma non per questo devi infierire.
E… mi dispiace, mi dispiace per tutte le persone che ho fatto soffrire, perché non lo meritavate e soprattutto, sappiate che me ne pento di essermene andato.
Ma avevo bisogno di uscire da quella situazione, da quel vicolo cieco e questa mi era sembrata l’unica opzione.
Fra un po’ il mio collegamento con il mondo esterno si concluderà, ma prima voglio dirvi un’ ultima cosa.
Non abbiate mai paura di cambiare, perché è la cosa più bella che un essere umano possa fare.

Sara La Torre
Classe / Liceo Classico Galileo di Firenze