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Sarà solo per noia che la vita corre alla velocità di un proiettile – Racconto

Sbuffò. Si dondolava avanti e indietro, avanti e indietro sulla sua sedia a dondolo. Era una sedia a dondolo di legno che aveva comprato a un mercatino. Non l’aveva pagata molto sua madre: probabilmente perché prima che suo padre la rimettesse a posto era molto trasandata, il legno era spaccato e c’erano molte schegge sullo schienale. Era stata fabbricata da un falegname di chissà quale Stato d’Europa, o magari da uno di una di quelle tante lontane colonie. Era una sedia che scricchiolava, andava avanti e indietro e scricchiolava. E puzzava di vernice. Andava avanti e indietro ed emanava un forte tanfo di vernice.
Sbuffò di nuovo. A fatica, così come la sua sedia dondolava, si alzò e scese al piano sottostante per vedere se ci fosse stato qualcosa di stuzzicante da mangiare: latte, pane, formaggio, frutta… Prese una mela, se la rigirò in mano per un po’ di tempo, fissando il vuoto: vide una luce forte, poi una debole, si alternavano in quel pomeriggio di una monotonia asfissiante. Credette di vedere muoversi qualcosa accanto a lui ma non si mosse di un millimetro, era come estraneo dal proprio corpo. Pensò a quando era bambino e il nonno lo portava nelle grandi distese verdi dietro la sua casa di campagna. E lì correva a perdifiato con il cane dei nonni e rideva e piangeva per lo sforzo e sentiva il cuore pulsare nel petto, i polpacci doloranti. Poi tornava a casa, la nonna gli preparava sempre la sua torta preferita: la crostata al cioccolato. Era fragrante, la pasta frolla si scioglieva che era un piacere e la crema di cacao gli impastava la bocca ed era una sensazione meravigliosa, di estasi. Il nonno nel frattempo fumava il suo sigaro e poi beveva un caffè con due zollette di zucchero per “addolcire il sapore del fumo”, diceva. Se era inverno accendevano anche la stufa e tutta la casa profumava di legno, un profumo che ancora oggi gli ricordava la famiglia. L’odore che sentiva ora, però, non era né del legno né tanto meno della crostata: era un odore umido, un po’ nauseante…
«Hey, ma che fai?!», esclamò contro il proprio cane, che stava leccando la mela che teneva in mano, riportandolo alla statica realtà.
«Tanto non mi andava», disse lasciando cadere a terra quel frutto, privo di cura e quasi di malavoglia. Si lasciò cadere allo stesso modo sul divano e cercò di pensare a qualcosa che lo riportasse via da quella realtà, ma niente. Guardò il quadro davanti a lui: rappresentava una bambina. Non ricordava chi l’avesse fatto, però ricordava che lo aveva sempre inquietato: aveva due occhi azzurri enormi, che ti guardavano così intensamente come se ti studiassero in ogni più piccolo segreto, come quelli di ogni bambino. Aveva boccoli d’oro che le adornavano il visino e le cadevano sulle spalle piccole e morbide. Sorrideva, almeno lei era felice. Teneva le braccia dietro la schiena. Indossava un vestitino giallo che le sembrava cucito a pennello. “Troppo perfetto”, pensò.
«Sono tornata!», sentì urlare dalla stanza accanto. Era sua madre.
«Hey», disse con il fiatone «Che fai lì seduto?»
«Guardo il quadro», disse d’un fiato, ma lentamente.
«Ma perché non esci fuori con i tuoi amici? Guarda che giornata meravigliosa! Sapevo che oggi ci sarebbe stata una gara di canottaggio giù al fiume, partecipa anche il figlio minore dei vicini, che ne dici di andare a fare un po’ di tifo?»
«Non lo so, mamma…»
«Dai, su, mettiti qualcosa di decente addosso, tra dieci minuti andiamo», gli disse stampandogli un bacio in fronte.
Arrivarono vicino al fiume solo dopo mezz’ora.
«Guarda, è lì!» disse la madre indicando il secondogenito del vicino.
«CIAO!» urlò. Il figlio cercò di non far caso a quel comportamento e con gli occhi si guardò intorno per vedere se trovava qualcuno di sua conoscenza. Poi la sua concentrazione venne interrotta da uno sparo. Partì la competizione e con essa le urla dei tifosi. All’inizio non capiva bene cosa stesse succedendo. Era spinto da una parte all’altra, con prepotenza, da quegli spintoni sudati e febbricitanti. E quell’agitazione gli metteva ansia e smania e gli faceva prendere caldo, voleva scappare, muoversi, urlare, ma era in trappola, fermo e voleva spingere anche lui, voleva liberare la tensione che quella calca gli stava progressivamente facendo aumentare dentro di sé.
«Andiamo! Mettete più forza in quelle braccia! Fate vedere a quei francesi che non sono niente in confronto a noi!», era una voce melodiosa, stonata in quel contesto. Fu lì che la vide per la prima volta: aveva lunghi capelli neri, un po’ ricci e poco raccolti. Gli occhi erano chiari, non ne vedeva le sfumature perché le era lontano. La pelle era lievemente rosata, liscia. Sentì un tuffo al cuore: sentì il caldo di quel giorno accentuarsi, sentì qualcosa muoversi dentro. Cos’era? Adrenalina? Spostò di nuovo lo sguardo sulla competizione. Percepì un’improvvisa voglia di partecipare a quella vita.
Tornato a casa era su di giri, si era divertito davvero. Dopo la gara cercò nella folla la ragazza, ma senza trovarla. L’entusiasmo passò quasi subito e in quel momento capì che aveva bisogno di fare un bagno. Restò ammollo nella vasca per un bel po’ di tempo, fino a che la madre non lo chiamò per la cena. Era restato a fissare il vuoto, a pensare al nonno, pensiero che poi venne spodestato dall’immagine di quella ragazza. Chi era? Avrebbe voluto così tanto sapere anche solo il suo nome…
A cena niente di nuovo, qualche patata e un po’ di carne. Sua madre gli ripeteva sempre la solita cosa ogni volta che lo vedeva corrucciare la fronte di fronte allo stesso pasto, che non avevano molti soldi e che il macellaio, che ci stava palesemente provando con lei da quando era rimasta vedova, si era proposto di aiutarli ma più di così non poteva fare.
Sbuffò. Si sentiva pieno. Fuori il cielo era limpido, avrebbe potuto fare due passi, ma non ne aveva voglia. Andò subito a letto, consapevole che così avrebbe digerito male ma non gli interessava. Sognò la ragazza, questa volta era in una raduna vuota, che urlava sempre contro i francesi. Si svegliò confuso e con un profondo odio per i francesi. Che poi non sapeva perché ce l’avesse con loro, ma era così. Passò la giornata senza niente di particolare: fuori pioveva e lui era rimasto tutto il giorno davanti alla finestra a pensare. Pensava che il ticchettio delle gocce d’acqua che cadevano a terra era molto simile a quello delle lancette di un orologio, scandivano il tempo che passava nella più completa noia. Si sforzava di studiare, tornato a scuola avrebbe avuto un compito in classe. Ma non ce la faceva, era più forte di lui. Guardò di nuovo fuori dalla finestra, sperò di vedere per puro caso la ragazza passare per quella strada e pensò al giorno precedente. Si era sentito così… vivo. Si era sentito vivo ad urlare in mezzo a quella gente agitata, si era sentito vivo in mezzo a quella gente urlante, si era sentito vivo a sentirsi in competizione con altre squadre, altri paesi, si era sentito vivo a tifare per la propria. Voleva riprovare quelle stesse sensazioni, sulla sua pelle, più da vicino. Avrebbe così soffocato quell’eterna realtà immobile, ne era sicuro…
Era giugno. Il caldo era diventato ancora più insopportabile. Lo Stato era in fermento, i giornali gridavano a squarciagola “FRANCESCO FERDINANDO UCCISO A SARAJEVO”. Per le strade volavano insulti ai serbi, ai loro alleati, a chi li difendeva. C’era chi già sospettava un’entrata in guerra, ma ancora il pensiero di un conflitto mondiale era lontano. Ci si limitava a criticare gli altri, a lodare la propria patria. Un po’ come con il canottaggio, ma quella era una forma di nazionalismo più forte e certamente più violento. Ma lui non lo sapeva. Si trovava d’accordo con quelle idee solo perché gli davano la stessa scarica di energia del tifo. E gli piaceva.
Un mese dopo l’Austria dichiarò guerra alla Serbia. Con lo scoppio delle prime armi da fuoco iniziarono anche gli arruolamenti. Non vedeva l’ora di andare al fronte, finalmente avrebbe raggiunto quello che fino a pochi mesi prima era solo una speranza, un sogno del cassetto. Con addosso l’uniforme era sicuro che si sarebbe potuto sentire vivo appieno.
Ma si sbagliava.
Era il 1914. Quello che lo circondava era solo morte: morte di uomini e di ragazzi che cadevano a terra come il domino, si spegnevano il un battito di ciglia, lasciando intere famiglie alla deriva senza che esse, in quel momento, ne fossero coscienti. Sentiva soldati urlare in quella folla di corpi morti e ammassati a casaccio e ciò non lo faceva sentire vivo. Non si sentiva vivo in mezzo a quella paura, non si sentiva vivo in quella guerra contro ragazzi e uomini con cui fino a pochi giorni prima prendeva il caffè al bar sotto casa. Non si sentiva vivo a combattere per la propria, di patria. Si sentiva come già morto. Tra le lacrime e un solo fucile in mano, fu spinto nell’enorme radura al di là della trincea. Ma non era una radura verde, come quella della sua giovinezza. Era grigia, a chiazze rosse per il sangue. E lui correva, a perdifiato, con il dolore nei polpacci e nel cuore. Poi lo sentì, un bruciore di fiamme infernali penetrargli la carne cruda. Squarciò l’aria con un ultimo grido, prima di accasciarsi a terra, con gli occhi spalancati. Vide il fumo dei fucili avvolgerlo lentamente. E in quel fumo, sentiva un odore familiare, misto a legna e sigaro.
«Nonno?» bisbigliò, fermo in quella frenesia che tanto aveva sognato, fermo come la vita da cui era voluto fuggire e che ora davvero gli stava scivolando via di mano in un secondo, come in un secondo erano passati quei mesi. A lui così era andato bene, ma non si era reso conto di cosa stesse davvero facendo.
Gli sembrò di sentire l’odore lieve e indefinito di una crostata, mentre piano piano chiudeva gli occhi per abbandonarsi all’eternità immobile che prima tanto aveva disprezzato.
Morì senza nome, senza sepoltura. Un milite ignoto di chissà quale Paese.
Ginevra Comanducci
Classe / Liceo Classico Galileo di Firenze