Senza senso – Racconto

Alla stazione salgo su un treno. Non so quale sia la destinazione. Non mi interessa, onestamente. Non capisco perché dovrebbe.
Non ho neanche comprato il biglietto. Mi basta stare nascosto quando passa il controllore. Con la mia fortuna ne passeranno almeno dieci…
Non riesco a sentire il braccio del sedile sotto le mie dita.
Logicamente so che lo sto toccando, ma la sensazione non viene neanche registrata. Non mi sembra nemmeno di essere seduto, ora. È un po’ come se galleggiassi, sospeso. Come se a mezz’aria comparisse solo la mia testa.
La mia coscienza, s’intende.
Mi viene voglia di sbuffare. Invece, mi guardo le mani, guardo il mio riflesso nel finestrino, guardo le mie gambe. E mentre mi osservo, mi sembra di vedere uno sconosciuto.
Ci sono giorni in cui non riesco a trovarmi nel mio corpo. Come se fosse un’entità separata da me. Come se fossimo due cose diverse.
Un po’ come se fossimo entrambi passeggeri dello stesso treno.
In questi giorni così, respirare sembra innaturale, e quando tocco le cose non riesco a sentire niente, come se cercassi di afferrare del vapore.
Mi piacciono le metafore: fanno sembrare più sensato quello che dico.
Una voce metallizzata annuncia la prossima stazione. Non so cosa abbia di particolare, probabilmente niente. Eppure scendo, stringendomi la valigetta al petto. Dentro ci sono dei libri che non so leggere, una mela che non posso mangiare e dei vestiti che non voglio mettere.
Che senso ha, vestire un corpo? Servirebbero piuttosto dei vestiti per la coscienza.
Resto fermo alla banchina, e riesco a vedere i passanti che mi fissano. La lunga camicia da notte bianca mi svolazza attorno, sollevandosi un poco con ogni ventata. Non sento niente sotto i piedi nudi.

Dieci giorni dopo la mia sortita, mi sveglio ed i colori sono scappati.
Il mondo è dipinto di grigio, di bianco e di nero.
Succede, ogni tanto. Preferirei essere cieco, in questi momenti.
È crudele, offrire a qualcuno i colori per poi strapparglieli via. Fa male, svegliarsi e non vedere il colore del cielo.
Quando mi capitano queste giornate, cerco sempre di uscire. Magari, se vado abbastanza lontano, troverò i miei colori.
Vedere il mondo in bianco e nero è peggio che non sentire niente sotto i polpastrelli, perché riesco a ricordare perfettamente com’era prima, ma ho sempre paura che questa volta non passerà. Ho paura che quando mi sveglierò domani, troverò grigio e nero a darmi il buongiorno.
Scendo dal letto e mi avvicino al balcone. Scavalcarlo è semplice, ed il salto breve. Sono anni che faccio quel salto per correre via. Sono esperto ormai.
Quindi esco, esco ed inizio a camminare. Per quanto mi piacciano i treni, amo camminare quando sento il terreno sotto i piedi.
Guardo la gente che passa, e mi sforzo di ricordarne i volti, anche se so che non ci riuscirò.
Quando non riesco a vedere i colori delle cose, non riesco nemmeno a ricordare i colori delle persone.
Sono solo, quando non vedo. Non importa se sono nel mezzo di una folla, sono comunque solo.
Le prime volte che mi è capitato, ricordo di aver pianto. Pianto come un bambino.
Come se non ci fosse altro da fare.
Suppongo di essere una persona malinconica. Del resto, come non esserlo, quando si vede solo grigio?
Mi trovano dopo quattro isolati, lacrime agli occhi e piedi scalzi.

Addento il pane che ho nel piatto, e sembra di mandar giù cenere. Certo, il pane non è la cosa più saporita, ma adesso sa soltanto di segatura.
Briciole o trucioli? Chi lo sa…
Mando giù un altro boccone insapore, e mi sento stringere il cuore. Attorno a me, persone a cui non so dare un nome.
Qualcuno ride, qualcuno no.
Resta il fatto che nessuno di loro sente cenere al posto del pane, o sabbia al posto del vino.
Ancora una volta, solo.
Ormai non mi meraviglio neanche più: sono nato per essere solo. Lo siamo tutti, del resto. Nessuno è mai davvero non-solo. Anche se non se ne accorge, non c’è nessuno con lui.
Allontano il piatto e mi alzo. Voglio vedere una finestra, uno squarcio sul mondo. Qualcosa che mi rassicuri che c’è altro oltre alla cenere. Mi piacerebbe crederci, ma in queste giornate anche l’ossigeno sa di polvere, ed ogni respiro mi uccide la gola.
Anche se è meglio di non vedere, non sentire i sapori del cibo mi impedisce anche di sentire i sapori del mondo.
Un tempo, bastava un certo sapore per farmi stare meglio.
Ora non c’è niente che funzioni, e devo solo sedere ed aspettare che la tempesta mi passi sopra.
Il tornado di emozioni mi scompiglia i capelli da quanto è forte.
Aspetto, stomaco pieno e le gambe raccolte al petto, i piedi nudi che sentono il freddo del pavimento. Buon Natale.

I giorni più rari sono quelli in cui mi rubano gli odori.
È buffo: non ci si accorge mai di quanto siano importanti gli odori finché non si sentono più.
Quando mi prendono il profumo freddo della notte, l’aroma bagnato della pioggia e la fragranza pesante del sole che tramonta, il mondo si svuota.
Di solito cerco di non pensarci. A volte mi nascondo sotto le coperte ed aspetto di addormentarmi di nuovo, sperando di svegliarmi con l’odore acre del mattino.
Non succede mai.
Anche oggi mi sono alzato. Cerco di fare finta che sia tutto normale. Lo faccio spesso, e a volte riesco quasi a convincermi.
Quasi, sì, perché poi magari mi capita di prendere un respiro più profondo e inizio a soffocare su quell’opprimente nulla che mi attanaglia il cuore ed i polmoni.
Anche oggi mi alzo, ma non riesco a fare altro. Resto seduto sul bordo del letto, guardando con occhi vacui la parete spoglia davanti a me. Non so quanto tempo passa, e potrebbe essere pomeriggio inoltrato ormai, ma resto lì fermo, impassibile.
Alla fine riesco a tirarmi su, trascinandomi faticosamente fino al bagno. Mi lavo il viso con acqua fredda, lasciando la saponetta da parte. Del resto, se non sento odori, che senso avrebbe?
Decido di restare in camicia da notte. Non ho l’energia per vestirmi.
Una volta sistemato così, mi siedo di nuovo sul letto e cerco di trattenere il respiro il più a lungo possibile, e per un secondo mi sembra di sentire il profumo del disperato ossigeno nelle mie vene che corre su e giù per i miei polmoni.
Svengo.

Non esiste niente di più terrificante dello svegliarsi ma aspettare ad aprire gli occhi perché chi lo sa cosa mi mancherà oggi?
L’attesa mi uccide, il dubbio non mi lascia pensare. Ho paura e voglio scomparire.
Voglio andare lontano, nel luogo più remoto del mondo, dove magari riuscirò a sentire di nuovo. Dove magari riuscirò ad essere completo.
Dove magari sarò aggiustato.
Stavolta mi alzo. A volte è quasi come se non fossi davvero io a muovermi, come se fossi un estraneo nel mio corpo.
Come se fossi il visitatore di un museo, che per caso si ritrova anche a fare il custode. Ed occasionalmente, ad esporre la propria arte.
Ripeto, ho un debole per le metafore.
Non so come funzioni per gli altri, essere sordi. Magari si sente solo quel ronzio bianco, quel quasi-fischio, tutto il tempo.
Io non sento nemmeno quello…
Una totale assenza di suono, una sorta di cecità uditiva che non mi lascia neanche un attimo.
Ogni giorno che passa mi sembra di essere sempre meno umano, e sempre più vuoto. E so che una mattina mi sveglierò, e non ci sarà più niente da prendere. Sarò completamente cavo, un semplice contenitore lasciato da parte una volta usato.
L’idea mi terrorizza quasi più del silenzio assordante che mi perseguita.
Oggi non voglio uscire. Non voglio neanche stare in camera. Immagino che il tetto sia il luogo migliore: non eccessivamente esterno, ma con più cielo della mia stanza.
Quindi salgo le scale con lentezza, muovendomi con attenzione nella mia sordità, e mi siedo sullo spiazzo tra le tegole. Semi-nascosto dal camino, qua sono invisibile.
Guardo giù, e sotto di me c’è un mondo. Un mondo che parla, che ride, che piange e che grida, ed io sono l’Estraneo. Il mondo va avanti incurante di me, incurante del mio dolore, ma non me ne rammarico.
Forse è meglio così. Forse è meglio che nessuno sappia cosa provo ogni istante.
O forse sono solo un pazzo su un tetto, che non vede e non sente e non può fare altro che lasciar passare il vento accanto a sé, aspettando di svegliarsi nuovamente completo.
Matilde Di Prima / Liceo Classico Galileo di Firenze