Verso il tramonto – Racconto

Il fischio acuto del bollitore mi fa balzare sulla poltrona. E’ una bella poltrona, di tela rossa, vecchia e consunta. La stoffa agli angoli è lisa, le nappe sdrucite, e al centro una grossa impronta scolorita per l’usura. Su uno dei braccioli sta distesa una triste coperta dal colore ormai indefinibile, ricordo lontano di una casa di cui ormai non restano che le fondamenta, perse nella verdissima campagna inglese.

Sbadiglio, e mi asciugo con la manica della vestaglia la scia di saliva che mi è rimasta sul mento. Ciabatto fino alla cucina, trascinandomi faticosamente al bollitore. Lo spengo, e verso l’acqua calda in una tazza sbeccata, che probabilmente ha fatto la guerra. Le tisane stanno nel ripiano a destra, quello più in alto. Sono sempre state lì, da che mondo è mondo. Mi allungo, la schiena che emette scricchiolii non molto rassicuranti, e inizio a rovistare furiosamente. Le dita sfiorano qualcosa di freddo e liscio, afferrandolo delicatamente.

E’ una scatoletta di latta, verniciata di bianco, un po’ scrostata. La apro e un’ondata di profumi mi travolge. Dentro vedo una ventina di bustine di tè, alla menta e al gelsomino, allo zenzero e ai frutti rossi, nero e verde, da colazione e allo zafferano. Da una parte, secchi e schiacciati, dei fiori di camomilla che ancora profumano. Un paio di piccole bacche mi guardano incuriosite, come a chiedersi cosa mai le avesse svegliate dopo tanto tempo.

Prendo una delle buste, ignorandone il sapore, e la metto a bagno. Cerco di rimettere il piccolo scrigno di tisane a posto, ricacciandolo nella dispensa, ma non riesco ad allungarmi abbastanza.

Sospirando prendo una sedia dal tavolo. E’ una vecchia sedia di saggina, con il legno dipinto di verde e dall’aspetto fragile. Spero che mi regga. Ci salgo sopra, esitante, ma non sento nessun rumore sospetto. A questo punto, scatoletta alla mano, mi accingo a rimetterla nel ripiano, per potermi godere il mio tè, la mia poltrona e il sonnolento pomeriggio assolato. Vedo un’altra scatoletta uguale, e dopo aver appoggiato l’altra, la prendo in mano.

Provo a scuoterla con delicatezza, per evitare di rompere qualche reliquia. Poi la apro, piano piano, cercando di non fare rumore. In sottofondo, una musica pacata dà alla stanza un’aria da sogno, con questa luce calda e soffusa, quasi sonnolenta.
La scatola sembra una tavolozza di colori autunnali. Giallo, rosso, marrone, e anche un verde dall’aspetto spento mi fissano.

Spezie, penso. Profumatissime, colorate e dimenticate in una stupida scatoletta di latta in fondo a una vecchia dispensa in una stupida cucina del ventesimo secolo in una vecchia casa abbandonata da anni.

Rimetto ogni cosa a posto, e chiudo la dispensa. Scendo con attenzione dalla sedia, e prendo la mia tazza. Guardo fuori dalla finestra, lasciando che il sole mi scaldi il volto. C’è un giardino, là fuori. Mi ricordo bambini che ci giocavano, una volta. Era parecchio tempo fa. Però mi ricordo ancora come ridevano contenti, come se giocare in un giardino con dei vecchi copertoni fosse la cosa più bella che potessero immaginare. All’epoca l’erba era ben curata, e la quercia, che mandava un po’ d’ombra sul prato, ospitava una sbilenca altalena dipinta di rosso.
Adesso è tutto pieno di erbacce, lasciate crescere in pace, che probabilmente mi arrivano a metà gamba. L’altalena sta ancora là, immobile da anni, con qualche fantasma di vernice che non cede al passare del tempo. I vecchi copertoni sono nel mezzo del prato, e l’erba è cresciuta tutto attorno, quasi seppellendoli.
L’aria è ferma. Anche da fuori, non si sente nemmeno un rumore, e il vinile continua a girare in silenzio. Non è la trepidante attesa prima di una battaglia, è semplice quiete. Come se la casa si fosse annoiata di sentire tutto quel rumore, e avesse deciso che voleva solo andare a dormire.
Finisco la mia tisana così, circondato dal silenzio. Anche io mi sono annoiato, credo.
Lavo la tazza, mettendola a posto una volta asciugata. Del resto, so che nessuno tornerà qua, e di sicuro nessuno tornerà qua per lavare i piatti. Faccio per tornare alla poltrona, quando il riflesso di una cornice mi fa l’occhiolino da un mobiletto.
Ci sono tante foto. Sono vecchie, e ritraggono semplicissime scene di vita quotidiana. Sono noiose.
Sono bellissime.
C’è una bambina, davanti ad una tavola imbandita. Un dolce, con otto candele in precario equilibrio sorride insieme a lei. Accanto a loro, guardano l’obbiettivo anche un bambino più piccolo, con guance paffute e capelli rossi (nella foto, i toni seppia non lasciano vedere i colori. Io però me lo ricordo bene, che quei capelli erano rossi come la vecchia altalena) ed un paio di denti mancanti. Sulla sua spalla, la mano di un uomo la stringe con affetto. Ha i capelli rossi anche lui, si vede, e i due si assomigliano moltissimo. L’unica eccezione è l’abito scozzese, quello da cerimonia, indossato dall’adulto. E’ addirittura munito di cornamusa.
I bambini nella foto pensavano che fosse il migliore musicista del mondo, per come faceva cantare quella cornamusa.
Accanto, una foto ancora più vecchia. Una coppia giovane sorride, stando in piedi davanti alla casa. Lei indossa un abito da sposa, lui ha lasciato la cornamusa, sostituendola con una medaglia al valore, lucida e perfetta. Sembrano vivi, come se mi potessero salutare da un momento all’altro. Il vetro è un po’ sporco su un angolo, e lo pulisco strofinandolo sulla manica della vestaglia. Perfetto.
L’ultima foto che guardo è poco più recente della prima. Stavolta nell’obbiettivo c’è solo il ragazzo, ormai adolescente, seduto sul ramo della quercia da cui pende l’altalena. Sta leggendo, e pare incredibilmente assorto, mentre scruta immobile le pagine. Anche senza che guardi l’obbiettivo, il suo sguardo è vagamente malizioso e attento. La camicia fuori dai pantaloni e i capelli rossi spettinati raccontano una mattinata rocambolesca, ed io sorrido scuotendo la testa. Chissà che aveva combinato, quel ragazzino.
Alzo lo sguardo, mettendo giù la foto. Incontro i miei occhi in uno specchio che, nonostante tutto, riflette ancora discretamente. Le guance non sono più paffute, bensì incavate e pallide. I capelli sono ormai caduti del tutto, e la luce che un tempo mi illuminava gli occhi è solo un ricordo. Mi guardo con attenzione. Gli zigomi troppo pronunciati, la pelle giallastra e secca come una vecchia pergamena. Sospiro, e metto la mano in tasca.
Una scatoletta di latta, anche stavolta. Dentro, una sola pillola, bianca. Ho passato ore a guardarla, seduto sulla poltrona. Torno in salotto, ogni passo un’impresa. Mi siedo, e torno a guardare fuori. Da qui, ho una visuale perfetta sulla quercia. Mi porto la mano alla testa, un tempo coperta di capelli rosso fuoco, e respiro profondamente, come a trattenere lacrime che non verranno. Mi stendo la coperta sulle gambe, e continuo a fissare la quercia.
Accanto a me, sul tavolino, solo un bicchiere d’acqua, ed una vecchia medaglia. E’ antica, ma non opaca. Ho badato bene a lucidarla io stesso.
Tiro fuori la scatoletta, con calma. Ho tutto il tempo del mondo. Butto giù la pasticca, e appoggio il bicchiere. Adesso, devo solo aspettare.
A questo punto, non sono neanche più annoiato: sono solo tanto, tanto stanco…
Sonnolento, il sole mi guarda mentre chiudo gli occhi, e come per magia, il silenzio si infrange.
Mi fa piacere. Avrei avuto paura, a cominciare una nuova avventura nel silenzio più totale.

Matilde Di Prima
Classe / Liceo Classico Galileo di Firenze