A tredici minuti dalla ricreazione – Racconto

Non avrei mai immaginato che una lezione di spagnolo potesse risultare così interessante.

L’ultima volta che avevo controllato erano le 9:47, o almeno era così che segnalava l’orologio rotto sopra la cattedra. Nessuno sapeva precisamente come e quando fosse successo. Un bel giorno abbiamo alzato lo sguardo e l’abbiamo trovato così, con le lancette bloccate tra le 9:46 e le 9:47, come a far credere agli alunni che manchino sempre e solo tredici minuti al suono della campanella della prima ricreazione. Crudele, particolarmente crudele il martedì mattina, alla seconda ora, durante la prima lezione di spagnolo della settimana.

Diedi una rapida occhiata ai miei compagni: gomiti sul banco e testa abbandonata su una mano, tipica posizione da studente della Sanchez,  professoressa che di spagnolo ha soltanto il cognome. Passa tutte le sue ore a vantarsi delle sue nobili origini, di come fosse stata strappata alla sua terra natia quando era piccola e di quanto avrebbe desiderato ricongiungersi a Valencia, con la sua carissima abuela e i suoi otto fratelli. Diffondere un po’ di cultura spagnola in Italia, a sua detta, è la sua più grande consolazione… beh, non la nostra…

Dovevo essermi addormentata per qualche minuto perchè quando tornai in me, eravamo passati al capitolo successivo, festività natalizie, “Fiestas navideñas”. Eravamo arrivati solo al terzo rigo che la Sanchez si era già persa: “Ah, il Natale… era la festa preferita di Pablo quando eravamo piccoli. Vi ho mai parlato di Pablo? Il caro Pablo, mio…”

Sì. Pablo, quinto fratello, nato undici mesi dopo di lei… ce ne aveva già parlato. Odio questa scuola, la odiavo prima, quando la mia unica amica, Chiara, non si era ancora trasferita dall’altra parte del mondo, e continuo a odiarla ora…

Stavo per rimettermi a dormire sul banco quando successe una cosa… strana. Un fischio fortissimo risuonò per tutta la scuola, costringendomi a tapparmi le orecchie. Durò solo qualche secondo. Mi voltai verso gli altri ragazzi e li trovai immobili, inespressivi, con lo sguardo fisso verso l’orologio, che aveva  improvvisamente ricominciato a muoversi con il suo ritmo ipnotico. La Sanchez aveva smesso di parlare di Pablo e adesso aveva lo sguardo fisso verso il banco al centro della seconda fila. Il mio. Inquietante era decisamente la parola giusta. “Professoressa?” chiamai. Niente, era come se non mi sentisse, fuori non volava una mosca. Mi alzai in piedi, stavo iniziando a spaventarmi

“Ragazzi?” chiesi timidamente ai miei compagni. Nessuna risposta.

Suonò la campanella, e tutto riprese a muoversi. Gli studenti uscirono dalle loro classi gridando, mentre Ernesto, il custode,  urlava di non fare chiasso. I miei compagni li imitarono, ignorando la professoressa che finiva il suo emozionante discorso «… ed è per questo che quello fu il Natale più bello della mia vita». Ma cosa stava succedendo?

L’orologio aveva ricominciato a non-funzionare come al solito, era tutto tranquillo, o almeno così sembrava. Normalmente una persona si allarmerebbe in una situazione del genere, ma qualcosa mi diceva che non avevo motivo di preoccuparmi. Decisi di pensare più che altro a quello che mi avrebbe aspettato una volta suonata la seconda campanella: tecnologia.

Il nostro professore di tecnologia è un tipo tranquillo, non perde mai la calma e non ci dà troppi compiti. Sarebbe perfetto se non fosse per l’irritante ondata di entusiasmo eccessivo per qualsiasi cosa che lo segue ovunque vada. Quando veniva a scuola qua, Chiara lo aveva soprannominato il Quokka, come quella specie di topo gigante che sorride sempre.

Il Quokka entrò subito dopo la campanella. Io mi alzai pigramente, prendendomi tutto il tempo del mondo, mentre i miei compagni, stranamente, si alzarono contemporaneamente di scatto, silenziosissimi. Erano quasi inquietanti. Vidi subito che c’era qualcosa che non andava: era vestito di nero, e il Quokka non si veste mai di nero. Si sedette sulla cattedra e ci squadrò come se fossimo un branco di capre. «Oggi interrogo» annunciò. Ci paralizzammo tutti al nostro posto: il Quokka non interrogava mai, e nessuno di noi aveva voglia di passare il pomeriggio a studiare approfondimenti sulla turbina Kaplan. «Qualche volontario?» chiese. Tutti zitti.

«Alemanno, hai alzato la mano?» chiese rivolgendosi a me.

Ehm… ovviamente no. Ma risposi senza pensare: «Chi, io?»

«Non lo so, c’è un’altra Alemanno in classe?»

«Temo di no».

«Sì, allora proprio tu. Prendi la tua sedia e vieni qui, vicino alla cattedra» mi disse perentorio.

Oh, fantastico. E turbina Kaplan sia, tanto cosa ho da perdere?

Ero girata di spalle, quindi non lo potevo vedere, ma capii dallo sguardo soddisfatto dell’ex Quokka che c’era un altro volontario. Questo sì che era strano.

Prese posto accanto a me una ragazza con una cascata di capelli ricci e con in mano una scatola da scarpe rossa. Sì girò verso di me. Chiara? No, era impossibile.

La scatola si aprì e ne uscì un criceto dal pelo blu elettrico e  dallo sguardo assatanato.

Quindi, nel giro di pochi minuti mi sono ritrovata a passare da una lezione di spagnolo a fissare un criceto blu imbestialito appena uscito da una scatola rossa, in braccio alla mia migliore amica che si dovrebbe trovare dall’altra parte del mondo, durante un’interrogazione di tecnologia per la quale non ho studiato. E poi mi lamento perchè non mi succede mai niente di emozionante…

Tutto questo non aveva nessun senso logico, come non ce l’aveva il fatto che io non fossi minimamente preoccupata. In più mi ricordavo perfettamente di quell’odioso criceto, Chris. Esiste una sola persona che ha un subconscio capace di creare un criceto antipatico blu di nome Chris, e quella sono io. Tutte queste cose mi portavano a un’unica conclusione, vale a dire…

«Sto sognando, vero?» chiesi, a nessuno in particolare. Il Quokka tornò improvvisamente allegro e mi promise che mi avrebbe messo un più o qualcosa del genere, poi si alzò fischiettando, prese Chris il criceto dalle mani di Chiara, che scoppiò a piangere, e uscì dall’aula chiudendo la porta a chiave.

L’ultima cosa che vidi prima che la porta si chiudesse, fu quella stupida palla di pelo che mi guardava con i suoi occhietti neri. Stupido criceto…

All’inizio rimasero tutti calmi, come se fosse tutto nella norma. Poi però ci fu quella faccenda della porta che all’improvviso prese fuoco, e lì scoppiò il caos.

Mentre io rimanevo a sedere, osservai a bocca aperta i miei non-così-amici presi dal panico saltare con un salto alla John Carter  da un buco  che si era materializzato nel muro, per poi scivolare, rimbalzare su delle bolle di sapone e sparire ridendo. Non mi ero mai sentita così, vuota, stordita e incredibilmente felice tutto insieme. Era come se stessi… beh, sognando, ecco.

Mi girai verso Chiara, che era rimasta accanto a me.

«E adesso,» le chiesi «che si fa?»

«È il tuo sogno,» mi rispose lei «puoi fare tutto quello che vuoi».

Tutto quello che voglio, tutto quello che devo fare è NON svegliarmi.

Avevo solo un ultimo problema da affrontare…

«Hogwarts o Narnia?»

 

Stella Alemanno / Scuola Secondaria di primo grado Puccini di Firenze