Il primo ufficio immigrazione della mia vita

Di Elena Casolaro

16 luglio 2019,

Un treno che viaggia tra Bolzano, Italia e Innsbruck, Austria. Io, seduta con il mio bagaglio a mano e il mio zaino su un sedile di quel treno, sola. Accanto a me, una coppia di persone di colore con dei bagagli ingombranti. Io, diretta a Imst, cittadina tirolese, per uno Short Course in un ambiente internazionale; la coppia, non saprei dirlo: forse in vacanza, forse cercando un posto migliore dove costruire la propria vita, un posto dove non devi lavorare 14 ore per portare a casa un pezzo di pane. Dopo aver vissuto l’episodio successo su quel treno, la mia vita non è più stata la stessa. Quello che vi sto per raccontare è semplicemente quello che ho provato, senza basi legali e senza accuse.

Ero lì seduta, leggendo un libro con le cuffie nelle orecchie. Il treno si ferma , perché siamo arrivati al confine tra l’Italia e l’Austria. Salgono dei poliziotti. La coppia mi chiede: ” controlleranno i documenti? ” io, nata, cresciuta e mai uscita dall’Unione Europea:”non credo, siamo all’interno dell’UE.” Un poliziotto arriva alla nostra carrozza, mi chiede il documento . Gli passo la mia carta d’identità, poi la chiede alla coppia. Cominciano a discutere, chiede loro il passaporto, loro non ce l’hanno e lui dice che devono scendere. Arrivano altri poliziotti, continuano a discutere e a parlare tra di loro. La coppia non vuole lasciare il treno, protesta, urla. Io sono lì seduta, nelle spalle strette dei miei sedici anni, e realmente non so che fare. Interviene un agente che mi dice: tu sei italiana, esci dalla carrozza, non c’entri nulla. Io esco. Vorrei dire qualcosa, ma ho lettere e virgole bloccate in gola. Dopo poco fanno scendere la coppia e il treno riparte. Ritorno al mio posto, l’aria puzza di sogni infranti.

Prendo lo smartphone, mi tremano le mani mentre chiamo mia mamma, avvocato, ma non mi risponde. Allora le mando un vocale in cui le racconto la storia, con le lacrime agli occhi. Cerco su internet, cosa dice la legislatura, se è giusto quello che è successo. Non riesco a rimettermi le mie cuffie e a riprendere il mio libro. Ero su quel treno perché stavo per partecipare a due settimane di corso dal titolo “Redefining Equality”, e appena arrivata raccontai quello che avevo vissuto su quel treno, che mi aveva scosso molto. Andando avanti ricevetti molti input su moltissimi temi di uguaglianza, che mi aprirono gli occhi sul mio privilegio. Non dimenticherò mai il pianto che mi sono fatta dopo una privilege walk: un gioco che attraverso delle domande ti fa capire quanto sei partito “avanti” nella vita rispetto agli altri. Ricordo di aver aperto gli occhi e di aver visto tantissime persone dietro di me e pochissime
davanti.

Sullo stesso treno, due settimane dopo, ci salii con una visione del mondo molto più ampia. Però l’immagine dei due signori cacciati dal treno non me la scaccio dagli occhi nemmeno adesso, più di sei mesi dopo, che sto scrivendo queste righe. In questo momento sono in Messico, per i miei sei mesi di 4a liceo all’estero. Sono arrivata una settimana fa, e scesa dall’aereo, sono passata per l’ufficio immigrazione. Avevo in mano il mio passaporto di italiana, emblema di tutti i miei privilegi, eppure mi hanno fatto domande su quello che andavo a fare, dove, quanto tempo, con chi. Documenti, certificazioni, firme e timbri. Mi sono sentita un po’ assediata, sola a rispondere a quelle domande in una lingua che capivo e non capivo. La fila che si allungava dietro di me, gli occhi non troppo dolci dell’impiegata. La stanchezza delle tre di notte, un aeroporto asettico dall’altra parte del mondo.
Poi, a me hanno detto: “benvenuta”.