LAVORO DIGNITOSO E SENZA FRONTIERE

È il 6 dicembre 1907, quando la miniera di carbone e ardesia di Monongah, (West Virginia) piccolo paesino tra i boschi dei monti Appalachi, salta in aria. Dentro ci sono tante persone, in pochi sopravviveranno. Le vittime risulteranno, alla fine, quasi mille, 171 italiani, di cui 87 molisani e 6 lucani. Pochissimi saranno riconosciuti. E’ una delle più gravi tragedie sul lavoro mai accaduta.

A Monongah abitavano circa 3.000 persone, vivevano tutti per la miniera della Fairmont Coal Company, estraendo carbone e ardesia. Vi lavoravano grandi e piccoli. La loro discesa sotto terra non era registrata da nessuna parte. Gli adulti guadagnavano 10 centesimi l’ora, i ragazzini ricevevano una misera mancia commisurata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Abitavano baracche di legno ricoperte di carta catramata, anche in dieci per stanza, pagando dieci dollari al mese, quasi metà dello stipendio.

Quel maledetto venerdì mattina alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva le gallerie. Un’esplosione terribile che si propagò dalla galleria otto alla sei.

I corpi recuperati erano carbonizzati, in gran parte irriconoscibili.
Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca di qualche segno di riconoscimento.

Alla fine in pochi ebbero un nome e il diritto ad una lapide.

Senz’altro, fu il più grande disastro minerario della storia americana e di quella italiana.

Sì, anche di quella italiana. Invero, 171 dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese.

Ben 87 venivano dal nostro Molise, altri dalla Calabria, dall’Abruzzo e dalla Campania. Lo raccontano tragicamente le lapidi. Le iscrizioni sono in un italiano sgrammaticato, colme di errori, ma anche di indicibile disperazione: “A riposo di Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel disastro di Monongah nella miniera N 8, nato a Frosolone di Campobasso lascia sua madre”. Sul crinale se ne trova un’altra: “Qui è che giace Giuseppe Colarusso, in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10. Suo fratello Michele pose”.

Era tutta gente povera, semianalfabeta, proveniente da piccoli paesi del sud Italia.

Molti in giovane età, costretti a vivere da reclusi e sempre sotto scorta, in campi di lavoro controllati da guardie armate. Da quelle parti circolava una battuta: “Gli emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale”.

Eppure, la storia è passata da quelle parti e poi se ne è andata con la fine della miniera.

Oggi tra queste colline boscose abitano meno persone dei morti di quella mattina di cento anni fa.
Ma la memoria è rimasta, e deve rimanere.

E così pure è rimasto tragico il ricordo, a lungo celato, della notte tra il 2 e il 3 marzo 1944, quando il treno merci 8017 entra nella galleria delle Armi, situata tra le stazioni di Balvano-Ricigliano e Bella-Muro (linea Battipaglia-Potenza).

Il convoglio incominciò a slittare nella galleria, lunga 1692 metri, e non riuscì più a procedere: oltre cinquecento persone morirono, avvelenate dalle esalazioni delle due locomotive a vapore.

Settantacinque anni fa, il 3 marzo 1944, in un luogo sperduto di un’Italia che dopo l’armistizio dell’8 settembre aveva di fatto smesso di essere Italia, avvenne uno dei più gravi disastri ferroviari del Novecento. Lungo il tratto lucano della linea Napoli-Potenza un treno merci con a bordo tra i 600 e i 700 passeggeri, quasi tutti campani, rimase bloccato per ore nel cuore della notte in una delle gallerie della tratta per una lunga serie di concause e negligenze. Quando i primi soccorritori arrivarono sul posto si trovarono davanti a una scena spaventosa.

Centinaia di cadaveri giacevano ovunque. Erano uomini, donne e bambini, soldati e macchinisti. I sopravvissuti furono appena una ventina.

Il disastro di Balvano è il più grave incidente ferroviario mai accaduto in Italia e fra i più gravi al mondo per numero di vittime. Ancora oggi non si ha una stima precisa di quante persone morirono veramente a bordo di quel treno: le stime più citate parlano di più di 500 passeggeri morti (521 per la precisione), ma le testimonianze dell’epoca ricordano oltre 600 cadaveri.

La causa della tragedia fu identificata nella scarsa qualità del carbone; non furono mai ipotizzate responsabilità.

Soltanto nel dopoguerra inoltrato vennero pubblicate le prime ricostruzioni dettagliate dell’accaduto.

Oggi, a ricordo del disastro di Balvano, esistono soltanto poche lapidi e vie intitolate ai passeggeri del treno nei loro paesi di provenienza.

Eppure queste sciagure raccontano storie, fatte di povertà e di emigrazione, di coraggio e di paure, di stenti e di speranze. Nell’umile fardello di quegli uomini e di quelle donne, che affrontavano il lungo viaggio oltreoceano per raggiungere l’America, vi erano poche e semplici cose, ma un bagaglio di valori e principi autentici di una civiltà contadina che basava la propria cultura sul rispetto, sul sacrifico, sulla solidarietà e sul lavoro. Ai nostri emigranti va, però riconosciuto l’alto merito di aver contribuito al riscatto della propria terra d’origine dalla miseria, nonché al progresso delle comunità d’accoglienza, attraverso il lavoro duro, a volte umiliante, a volte ingrato, costato spesso il sacrificio di vite umane.

Ciò perché l’emigrazione italiana non è soltanto una storia dolorosa di vittime, discriminazioni e sfruttamento, ma è anche l’odierna realtà degli italiani nel mondo e dei loro discendenti, perfettamente integrati sia economicamente che socialmente nei paesi d’accoglienza, ma profondamente legati al loro paese d’origine e alla sua grande cultura.

Le tragiche vicende narrate, ed in particolare quella di Monongah non devono essere, però, solo motivo di commemorazione, ma devono rappresentare l’impegno da parte di tutti nella costruzione di una consapevole cittadinanza e di una cultura della sicurezza che possa consentire di evitare il ripetersi di simili tragedie sui luoghi di lavoro.

E questo, ancor di più, oggi che l’Italia è diventata terra di approdo e di speranza di tanta gente che proviene dai Paesi più poveri del mondo e che, come allora, cerca migliori condizioni di vita. La rievocazione di tali tragedie deve servire, soprattutto alle giovani generazioni, per riflettere sul fenomeno “emigrazione” e per riconoscere pari dignità e diritti a chi, come è successo a tanti nostri emigrati, lascia la propria terra e la propria famiglia nella speranza di costruire un futuro migliore.

Di qui la necessità di costruire una cultura dell’accoglienza e della solidarietà, del rispetto dei diritti e del riconoscimento dei doveri.

In particolare, nella sua Dichiarazione di Filadelfia del Giugno 1944, l’OIL scrive che:

“Il lavoro non è una merce. Gli esseri umani, per i quali il lavoro è una fonte di dignità e di benessere familiare, possiedono dei diritti che devono essere rispettati. Il lavoro non può essere considerato semplicemente un costo di produzione”.

Il concetto di lavoro dignitoso è stato istituzionalizzato formalmente con l’adozione della Dichiarazione dell’OIL sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta. Ed è stata istituita una giornata mondiale del Lavoro dignitoso il 7 di Ottobre.

Nel 1999 il Direttore Generale dell’ILO, Juan Somavia, ha presentato alla Conferenza Internazionale del Lavoro il Rapporto Decent Work all’interno del quale afferma per la prima volta: “oggi l’obiettivo primario dell’ILO è garantire che tutti gli uomini e le donne abbiano accesso ad un lavoro produttivo, in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana”. Nasceva così, il concento di Decent Work o lavoro dignitoso.

Il lavoro dignitoso è un concetto universale che si applica a qualsiasi categoria di lavoratori e pone in luce il ruolo chiave dell’occupazione, con la sua dimensione quantitativa (posti di lavoro creati) e qualitativa (condizioni di lavoro), nella determinazione delle condizioni di esistenza degli individui e nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza.

Nel 2008 il concetto di lavoro dignitoso è stato istituzionalizzato formalmente con l’adozione della Dichiarazione dell’ILO sulla giustizia sociale per una globalizzazione giusta. Questo solenne documento costituisce il più importante atto di evoluzione dell’ILO dai tempi della Dichiarazione di Filadelfia e rappresenta un punto di riferimento fondamentale per la promozione di una globalizzazione giusta fondata sul lavoro dignitoso.

Ora, però, rimane un dubbio: stiamo parlando dell’astratta enunciazione di meri principi oppure trattasi di un valido punto di partenza in  direzione di un percorso concreto da percorrere?

Da dove, allora, occorre ripartire?

Forse, dall’adozione di provvedimenti immediati ed effettivi per sradicare il lavoro forzato, porre fine alla schiavitù moderna e alla tratta di esseri umani e garantire la proibizione ed eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile.

Parimenti, potrebbe essere necessario un intervento urgente per creare una cultura globale della prevenzione che rispetti il diritto a un ambiente di lavoro sano e sicuro e che garantisca che datori di lavoro e lavoratori siano consapevoli dei propri diritti e delle proprie responsabilità.

Soltanto allora potrà dirsi che le vicende raccontate saranno state di monito a tutti noi affinché l’emigrazione e le sue implicazioni nella storia dei singoli e delle comunità non siano più storia di sfruttamento, emarginazione, sacrificio, sofferenza.

E ciò vorrà significare che si sarà reso onore e gratitudine a tutti i caduti sul lavoro, di Monongah ma anche a quelli di ogni epoca e di ogni terra; e la conoscenza delle storie di vita e di emigrazione, avrà aiutato a costruire per ciascuno di noi e per la nostra comunità un futuro migliore, e così per tutti i figli di questa terra sparsi per il mondo, che portano sempre vivo nel cuore il ricordo delle loro origini e il desiderio di mantenere saldo il legame con le loro radici.

Candida Izzi