Ricordo, dolore, insegnamento…

“Anche tu hai vissuto la guerra in prima persona nonno?”

“No Sofia, certo che no…sai quando è scoppiata l’ultima guerra combattuta dal nostro Paese?… Nel lontano 1939. So che mi porto male gli anni, ma faccio parte del XXI secolo anche io!”

“Allora non hai da raccontarmi quelle storie che si leggono nei libri, che ti fanno venire la pelle d’oca o che ti fanno provare così tante emozioni tutte insieme da farti sentire un protagonista delle vicende di quei tempi…”

“No tesoro, purtroppo non ho storie come quelle da raccontarti. Posso parlarti però di un periodo particolare e doloroso della mia vita, di certo non paragonabile ai tempi delle grandi guerre, ma che potrebbe suscitarti le stesse forti emozioni che si provano leggendo un bel racconto.”

“Va bene nonno. Inizia a parlare, sono curiosa.”

“D’accordo. Allora…hai mai sentito parlare del covid-19?”

“No, mai.”

“Lo immaginavo, sei troppo giovane. Beh ecco il covid-19 è un virus che si diffuse in quasi tutto il mondo provocando molti morti. Ricordo che quando i telegiornali hanno iniziato a parlarne era dicembre, durante il periodo di Natale. Il virus ha avuto origine in Cina. Quando io e i mei compagni di scuola sentivamo le notizie dai monitor della metro pensavamo che tutto quello che stava succedendo in un luogo così lontano, quasi dall’altra parte del mondo, non ci avrebbe mai riguardato in prima persona… e invece ci sbagliavamo.”

“Il virus arrivò anche in Italia nonno?”

“Proprio così Sofia. L’Italia fu uno dei Paesi che ne soffrì di più. Arrivò da un momento all’altro, come una forza travolgente che sconvolse le nostre vite. Se la memoria non mi gioca brutti scherzi, il virus ci raggiunse verso metà febbraio. E da quel momento i casi di persone contagiate iniziarono ad aumentare così come il numero di persone che volarono in cielo, gli ospedali iniziarono ad affollarsi e iniziò a percepirsi il panico tipico di queste situazioni.”

“E tu come l’hai vissuta nonno? Che si faceva durante questo periodo?”

“Innanzitutto il governo fu costretto ad attivare misure restrittive. Scuole e università furono le prime a chiudere, seguite dagli uffici, dai negozi, dai ristoranti. All’inizio non si comprese bene la situazione e le persone, me compreso, non la prendevano seriamente. Le notizie che venivano diffuse era tante e preoccupanti. Quando si capì che il virus si stava espandendo molto rapidamente e che le circostanze erano allarmanti iniziò il nostro vero e proprio periodo di “quarantena”. L’Italia era diventata ormai “zona rossa”. C’era l’obbligo di non uscire di casa se non per poco tempo e di non incontrarsi con nessuno.”

“Io non credo che sarei riuscita a restare in questa specie di isolamento che mi stai descrivendo. Come hai fatto a sopportarlo?”

“Non è stato facile, devo ammetterlo. Fa davvero male passare dall’ andare tutti i giorni a scuola, dall’essere circondato dai miei amici, dall’avere quel ritmo di vita quasi frenetico tipico di Milano, a stare rinchiusi senza quel contatto umano a cui si è abituati. Il coronavirus ci obbligò a cambiare le nostre abitudini.”

“E la scuola? Quanti giorni avete perso?”

“La scuola rimase chiusa per poco più di due mesi. Ma il vero problema non era relativo alle lezioni perse o ai programmi non svolti. Quella situazione che di fatto aveva interrotto tutte le relazioni sociali, rischiava di mettere in crisi l’economia oltre che i valori umani. Detto così sembra un po’ esagerato lo so. Ma durante quei giorni si verificarono delle situazioni che di poco si discostavano da quelle della peste descritte da Manzoni nei Promessi Sposi… Iniziò una specie di caccia al “primo untore”, il cosiddetto paziente zero, la gente si riversava nei supermercati per fare provviste peggio di come si faceva nei periodi di guerra o cercava di “scappare” dalle aree con più contagi, per non parlare poi delle fake news che circolavano, dell’isterismo collettivo, dell’emergenza sanitaria. Una delle cose più tristi secondo me fu lo sviluppo di un generale clima di diffidenza. Quando camminavo per strada facevo sempre più attenzione, inconsciamente, a chi mi stava intorno e a chi incrociavo.”

“E poi che è successo?”

“Abbiamo adattato le nostre abitudini alla situazione; si viveva però con la speranza che tutto arrivasse ad essere un ricordo.”

“Deve essere stato brutto…”

“Sì lo è stato. Ricordo ancora le parole del nostro preside in una lettera che scrisse a noi studenti in un momento così teso e delicato: “Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni e forse ancor più Boccaccio, è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani”. In quel periodo risentii molto dell’impossibilità di avere una vita sociale attiva. Noi siamo animali sociali, Sofia. Abbiamo bisogno di condivisione, di interazione, di contatto.”

“Non sentivi mai i tuoi amici?”

“Certo che li sentivo! Ogni giorno facevamo lunghe videochiamate in cui per ore parlavamo di tutto quello che ci veniva in mente, dalle nostre preoccupazioni alle cose più banali, ci consigliavamo film da vedere, ricette da provare, libri da leggere, canzoni da suonare. E parlavamo di ciò che avremmo fatto durante l’estate, quando speravamo che ormai tutto sarebbe finito. Una sera abbiano iniziato a fantasticare sull’organizzare un gruppetto di amici, andare via da Milano e rifugiarci in qualche posto sperduto fino al risolversi della situazione.”

“Molto stile Decameron devo dire…”

“Esatto Sofia. Come i dieci giovani si distraevano dal clima della peste riunendosi nelle campagne fuori da Firenze per raccontarsi novelle a tema ben definito a seconda del giorno, così noi ragazzi ci tenevamo in quotidiano contatto riunendoci a distanza grazie alla tecnologia del tempo. In questo modo compensavamo quell’incredibile carenza che per la prima volta avvertivamo: ci era stato negato il diritto alla vita sociale e al contatto umano. Nonostante ciò in quel momento ho avuto modo di sperimentare che c’è sempre un risvolto positivo in ogni situazione. Abbiamo rallentato la frenesia della nostra routine quotidiana e abbiamo avuto un tempo smisurato per riflettere, per riprendere a fare delle attività che si erano perse: pranzare tutti i giorni con i propri genitori, guardare un film sul divano dopo cena, osservare a lungo ciò che accadeva fuori dalla finestra, prendere semplicemente del tempo per noi stessi. Sembrerebbe quasi sia stato un messaggio al mondo, seppur troppo forte e violento, di brusca frenata alla corsa smisurata che inevitabilmente coinvolgeva tutti.”

“La tua storia mi ha fatto venire la pelle d’oca nonno…è bello sentire come siete riusciti a continuare la vostra vita in un momento difficile come quello e a non abbandonare mai la speranza. Grazie.”

“Grazie a te tesoro per aver alleviato, con il tuo interesse, l’angoscia del ricordo.”

…La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla. – Gabriel Garcia Marquez

Classe 3B