Racconto: Il Confino

Il confino

Racconto di formazione

di Giulia Bandoli, Sofia Baroncelli, Viola Carpentieri, Vittoria Cecconi, Davide Consalvo, Sara D’Aveta, Francesca Dordoni, Agostino Fera, Isabella Messina, Silvia Mucciante, Elisa Nocerino, Livia Pierucci, Tommaso Paoloni

(classe III A dell’istituto Sinopoli-Ferrini di Roma)

trentunesimo giorno

Chiamarlo confino forse è esagerato, ma la situazione è più o meno quella. Siamo in quarantena da un mese, e le giornate diventano sempre più noiose.

Comincio a detestare sempre di più la mia famiglia, e rimpiango di non aver comprato un cane per avere la scusa di uscire. Ormai sono disperato, non so più cosa fare, a parte seguire le lezioni online e studiare.

Nel pomeriggio mi sono iscritto a un concorso di cucina online: il fatto è che non so cucinare, e l’unica cosa che so preparare è un riso in bianco. Ho giocato alla playstation, ma la mia sorellina di sette anni continuava a chiedermi di giocare con lei, quindi ho messo le cuffie ed ascoltato la musica.

Insomma le giornate sono tutte così, monotone. Ormai ho perso la speranza che possa succedere qualcosa che cambi la situazione, o che faccia sparire questo dannato virus.

trentottesimo giorno

Sono nella mia stanza, quando sento mio padre che mi chiama a gran voce. Mi affaccio per vedere cosa vuole e mi si illuminano gli occhi quando mi dà la splendida e attesissima notizia: posso finalmente uscire! Inizio a saltellare su e giù per la casa, mio padre mi fa cenno di stare in silenzio e di mettermi le scarpe. Mi viene spontaneo chiedere come mai lo possa fare e se è una cosa legale. Lui mi guarda con aria rassicurante e dice “andiamo, un giorno aiuterai la società a distruggere il virus”.

Mentre sto per uscire vedo mia madre che mi guarda dalla cucina, con un’espressione preoccupata. Non sopporto più l’idea di dover stare a casa con lei tutti i giorni, quindi prendo la giacca e seguo mio padre fuori dal portone. Metto la mascherina, al contrario di mio padre, che sembra più interessato a vedere se c’è qualcuno nei paraggi, che al virus. Gli chiedo più volte se stia bene e anche se mi continua a rispondere di sì, non me la racconta giusta.

Mi ha chiesto di portare un computer, senza motivo apparente. Arriviamo davanti a un magazzino che non avevo mai visto in vita mia. Lui mi dice che ci lavorava mia madre tanti anni fa e che è rimasto di nostra proprietà.

Più continua a parlare, più io penso che menta: entrambi i miei genitori lavorano per un’agenzia di viaggi e lo fanno fin da quando ne ho memoria e nessuno degli amici di famiglia ha mai menzionato questo posto di lavoro.

I miei pensieri vengono interrotti dalle imprecazioni di papà: si è dimenticato le chiavi, dobbiamo sbrigarci e dovremo scassinare, forzando il sistema di sicurezza interno. Provo a rifiutarmi, già sapendo che papà probabilmente avrà la meglio, come al solito.

Il magazzino è visibilmente molto tecnologico: all’interno ci sono molti computer, alcuni sono accesi, e facendo un po’ di attenzione è possibile notare che in alcuni monitor varie schede sono state lasciate aperte. Ci sono scritti tantissimi numeri e formule dei quali non riesco a comprendere il significato. Da un’altra parte della sala, ci sono dei grandi banchi con numerose provette che contengono liquidi strani, con colori e consistenze che non avevo mai immaginato prima d’ora potessero esistere.

Ad un angolo c’è un piccolo spazio apposito per i servizi igienici, con un gabinetto, un lavandino e un piccolo specchio. Non è l’unica stanza presente in quel grande magazzino, ce n’è anche un’altra con la porta socchiusa. Purtroppo non si riesce a vedere cosa ci sia all’interno.

Continuando a sbirciare dalla finestra il mio occhio cade su un attrezzo veramente bizzarro. Si tratta di un grande macchinario che elabora varie sostanze. Il principio secondo il quale lavora la macchina è che il liquido in questione parte da una determinata provetta, e secondo il fenomeno della capillarità riesce a passare di provetta in provetta. Alcune di esse sono surriscaldate da una fiamma costantemente accesa che fa ribollire la soluzione, altre invece credo che siano posizionate per far diluire il liquido con altre sostanze, allo scopo di evitare una densità troppo elevata che rovinerebbe il lavoro svolto dalla macchina fin lì.

E tutto ciò è talmente moderno che è la prova schiacciante di una recente modifica, quindi non è possibile che mia madre ci abbia lavorato solo venti anni fa.

La testa comincia a pulsare, finché improvvisamente tutto sembra più chiaro.

Guardo mio padre, lui guarda me: non so se dargli il beneficio del dubbio.

Quarantacinquesimo giorno

Sono passati esattamente 7 giorni e 16 ore da quando ho capito che nella vita non ci si può fidare delle persone, neanche dei propri genitori. Fa male sapere una cosa del genere, ma forse il dolore più grande è quando ti succede veramente: non si tratta più di una frase ad effetto, ma della vita reale.

Sono arrivato a questa dura conclusione nel momento esatto in cui, all’interno del magazzino, mio padre, con aria soddisfatta, mi ha raccontato qualcosa che non mi sarei mai immaginato: “Figlio mio, è da tempo che tua madre ed io vogliamo svelarti un segreto che, come tale, deve rimanere ancora per molto. Qui davanti a te non c’è solo un grande magazzino, che grazie alla tua bravura potrai trasformare un giorno in un’azienda tecnologica, ma…”.

Quello che mi dice è talmente sconvolgente che la mia testa comincia a girare come non aveva mai fatto. Una notizia dopo l’altra mi arriva, confondendomi, e i miei occhi si riempiono di lacrime. Non riesco a credere alle sue parole. I miei genitori, le persone che mi hanno cresciuto, potrebbero salvare l’umanità intera ma, per un motivo che io ancora non conosco, sono così crudeli da tenerselo per sé. Sono ancora più frastornato di prima e poi, come una forte eco, sento tante voci. Non reggo più la tensione e svengo.

Ora sono nella mia camera ed è da quel giorno che io e mio padre non ci parliamo più. Non mi dispiace affatto, anzi, preferirei non vederlo più.

Ma rinchiusi nella stessa casa per la quarantena, ogni giorno me lo ritrovo davanti, e ogni giorno cerco di dimenticare il passato. Ma come si può?

Quarantaseiesimo giorno

Mi sveglio di colpo dopo uno dei numerosi incubi avuti durante la notte. Ancora un po’ insonnolito mi giro e vedo la sveglia che indica le 5:00. Cerco di riprendere sonno, ma l’unica cosa che vedo quando chiudo gli occhi è la figura di mio padre dentro quel magazzino. Non riesco a togliermi le sue parole dalla testa. Mi giro e rigiro dentro il letto, come se questo potesse cancellare tutto, ma ad un certo punto crollo.

Riapro gli occhi, ma inaspettatamente sono le 10. Questa volta non ho sognato nulla o quantomeno non lo ricordo; guardo il soffitto incantato, torna improvvisamente quell’immagine, di scatto tiro su le coperte fino a coprirmi tutto, non ne voglio più sapere nulla, dei miei genitori, o almeno cerco di convincermi che sia così. Mi siedo sul letto e inizio a camminare avanti e indietro per la stanza, non voglio incontrarli e nemmeno sentire le cose che sicuramente hanno da dirmi.

Ad un certo punto mi fermo, qualcuno ha bussato alla porta, non so se sia mio padre, mia madre o mia sorella. Rimango fermo, impietrito come una statua. La rabbia e il dispiacere si mescolano ma ad un certo punto dico, con voce calma: “avanti!”.

La porta si apre lentamente, entra dentro la stanza mia madre, avanza sempre con la sua delicatezza, mi sorride, ha un piatto in mano; in mezzo ben posizionato c’è un pezzo di torta: cioccolato e panna, la mia preferita, me la porge. Non so se accettarla: “pensano che li possa perdonare offrendomi un pezzo di dolce?”. Ma non mangio da ieri sera, il mio stomaco brontola, dubbioso la accetto e insieme ci sediamo sul letto ancora disfatto.

C’è un silenzio imbarazzante e mia madre decide di rompere il ghiaccio iniziando a parlare. La vedo preoccupata, ma anche dispiaciuta… ci metto un po’ ma riesco a sbloccarmi, cerco in tutti i modi di evitare il discorso sul magazzino e il resto, lei non insiste, non vuole innervosirmi.

Così cambiamo completamente discorso, iniziamo a parlare della scuola, della torta che mi ha preparato, dei bei vecchi tempi prima che questo virus condannasse le vite di tutti.

Si fa tardi, mia madre si alza e raggiunge mio padre per aiutarlo a cucinare. So perfettamente il perché di quel gesto, sicuramente cercano di avvicinarsi ma non voglio perdonarli, non mi fido più come prima.

Quarantasettesimo giorno

Sono due notti che non dormo a causa delle mille domande che mi frullano per la testa; vorrei delle spiegazioni, ma mio padre non voglio più guardarlo in faccia, mi sale il sangue al cervello solo al pensiero che mi abbia coinvolto.

Non capisco se quel magazzino sia veramente nostro, oppure se lo volesse scassinare per rubare la cosiddetta “formula del Coronavirus”.

Vado in cucina per fare colazione, mi assicuro che non ci sia nessuno e corro a prendere i cereali per portarmeli in camera. In quel momento sento aprire la porta della camera dei miei genitori, scappo in camera e mi chiudo la porta alle spalle: strano che qualcuno si sia svegliato così presto.

Ignoro i rumori che provengono dal salotto, e decido, per distrarmi, di giocare a Fortnite, quando mi ricordo che pochi giorni prima ho tirato il joystick sul muro e mi si è rotto: ci mancava solo questa…

Devo studiare, visto che le videolezioni si svolgeranno nel pomeriggio e io non ho studiato niente, ma, mentre prendo i libri, vedo mio padre uscire di casa. Lo osservo dalla finestra, si dirige verso quel magazzino, lo stesso che giorni prima ha scassinato insieme a me.

Si avvicina alla serranda e bussa. Gli aprono solo dopo che papà ha pronunciato qualcosa, ci deve essere una qualche “parola d’ordine”. Intravedo delle persone, ma non riesco a vederle in faccia, perché chiudono subito la serranda.

C’è qualcosa che non va: voglio capire che intenzioni ha mio padre; voglio, anzi pretendo delle spiegazioni.

Poco dopo esce anche mia mamma con la scusa di dover fare la spesa. Capisco che sta mentendo, perché si dirige dalla parte opposta rispetto al supermercato. Intanto la mia sorellina si è addormentata sul divano e è proprio quando distolgo lo sguardo da lei che mi viene un’idea. Devo andare in cantina, lì forse potrei trovare le risposte a tutte le mie domande: perché non mi hanno mai permesso di andarci?

Prendo frettolosamente le chiavi e corro fino alla cantina; si trova a fianco del garage e la porta di ingresso è piccola e di metallo, con la maniglia arrugginita. Si capisce che non ci entra qualcuno da qualche annetto. Forzando la serratura, con un po’ di fatica riesco ad entrare. Ci sono pile di scatoloni pericolanti, alcuni giocattoli dei miei genitori ed alcune bambole in ceramica piuttosto inquietanti, risalenti probabilmente agli anni ‘50.

Ogni scatolone è ricoperto da almeno due centimetri di polvere. Ho la vaga sensazione che lì dentro non troverò nulla di utile e allora decido di andarmene, quando però inciampo accidentalmente su di uno scatolone, facendo cadere a terra un’intera pila di scatole.

Alcune di queste fortunatamente non si aprono, altre invece si aprono completamente rovesciando tutto il loro contenuto.

Ora mi tocca pure rimettere tutto a posto, ma so che non c’è tempo. I miei genitori torneranno di qui a poco. Tra tutto quel disordine noto un album di foto abbastanza vecchie, lo apro e vedo che ci sono solo due foto: una di queste raffigura i miei genitori e mio nonno davanti all’edificio che pochi giorni prima mio padre mi aveva chiesto di scassinare. Giro la fotografia con la speranza di vedere la data della foto, e fortunatamente c’è. La foto risale al 21 maggio 1991.

La seconda fotografia invece ritrae un documento che non capisco cosa sia. Risale al 21 novembre 1995. Ad un certo punto sento dei passi. I miei genitori stanno tornando. Esco di corsa dalla cantina e con mia sorpresa me li ritrovo davanti.

Quarantottesimo giorno

Non ce la faccio più, i miei mi seguono dappertutto, non smettono mai di guardarmi. Ogni volta che uso il telefono mi chiedono “cosa fai col telefono?”, oppure “dove vai?”, mi chiedono perfino quando vado in bagno, in camera o in cucina. Mi stanno col fiato sul collo, non li sopporto più, ma più si comportano così più capisco che hanno qualcosa da nascondere.

Tutto questo da ieri, dopo che mi hanno sorpreso in cantina e mi hanno chiesto perché stavo lì e io da vero idiota sono riuscito solo a balbettare e a dire “sono qui solo per curiosità e per vedere se nelle cantine ci sono veramente tutte quelle ragnatele che si vedono nei film”. Ovviamente i miei hanno capito subito che sto cercando spiegazioni su quanto è accaduto. Almeno ho avuto l’abilità di nascondere la fotografia del documento dentro la manica della maglietta.

Quando sono tornato in camera mia, ero troppo stanco e agitato per vedere di cosa trattasse il documento e quindi mi sono concentrato sulla prima fotografia del 21 maggio, che ritrae i miei genitori e mio nonno davanti al palazzo e che non sono riuscito a prendere di nascosto dai miei. Per questo ho deciso che stasera ritornerò in cantina e magari, se avrò fortuna, troverò anche qualcos’altro.

Nell’attesa mi sono messo a guardare il documento e sono rimasto alquanto sorpreso nel vedere che è pieno di numeri strani che si ripetono.

Cercando su internet la prima riga di numeri, come primo risultato della ricerca si è aperta una pagina con scritto “convertitore codice binario”. Questo codice, inventato nel 1669 e riscoperto nel 1847, è la chiave che mi permetterà di decifrare la fotografia.

Ho riaperto la pagina con il convertitore, mentre penso con tristezza al fatto che i miei genitori mi hanno preso in giro per tutto questo tempo.

Ho finito di trascrivere, mi sudano le mani mi tremano le labbra, e adesso non per il freddo; sento un brivido attraversare la mia schiena: ora tutto può cambiare. Il mio passato, il mio presente e persino il mio futuro sono messi in discussione. Chi sono io? Chi è mio padre? E cos’ha da nascondere?

Cinquantasettesimo giorno

Sono le sei del mattino quando decido di alzarmi e andare a bere un bicchiere d’acqua. Non ho chiuso occhio tutta la notte e ho bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe. Mentre vado in cucina sento delle urla. Sono i miei genitori che litigano, non so di cosa stiano parlando e neanche mi interessa, non mi importa più nulla di loro. Né chi siano veramente, ne cosa facciano, né perché litighino. Ma quando faccio il primo passo per tornare verso camera mia, sento una frase che mi fa rimanere impietrito: “Non possiamo continuare a mentire, capirebbe da solo e ci odierebbe ancora di più di quanto già non faccia”. Continuano a parlare, ma io non ne posso più di stare a sentire.

Corro in stanza e sbatto la porta con talmente tanta forza che mia sorella fa un salto dal letto e si mette a piangere. Quella mocciosa ha fatto smettere i miei di discutere e li fa correre subito in stanza nostra.

Eh sì, non basta stare già tutto il giorno con quella piccola peste, ma anche la notte, 24h su 24h. E’ un vero incubo. Non ho neanche un momento di privacy. Quanto invidio i miei compagni che hanno la camera tutta per loro!

Comunque, appena mia madre apre la porta e mio padre mette piede in camera, io scatto via come un fulmine verso il salotto e mentre i miei tranquillizzano mia sorella, che nonostante abbia già sette anni si spaventa di tutto, mi metto a vedere la tv.

Più tardi vedo i miei genitori uscire di casa dicendo che vanno a comprare una medicina per l’allergia di mia sorella. Li seguo, quanto basta per vedere che i miei sospetti sono fondati e che stanno andando in quel laboratorio.

Torno a casa con ancora più rabbia dentro di me e appena ho riaperto la porta di casa mi metto a cercare la foto del documento e i risultati delle mie ricerche, ma sono sparite.

Cinquantanovesimo giorno

Ho deciso di agire, non serve a nulla continuare a chiedermi cosa sia successo nella mia famiglia senza far nulla per scoprirlo; questa sera sul tardi andrò da solo al magazzino e capirò cosa sta succedendo.

Alle 23:00 in punto ho una canzone indie sparata nelle orecchie, la sveglia del cellulare; ho gli auricolari per non far sentire il suono ai miei che dormono già da un po’, quello che sto facendo può sembrare folle ma sono convinto: non c’è altro modo.

Esco di casa, l’aria è fresca e ora capisco perché mi mancava tanto uscire, salgo sulla bicicletta e seguo il percorso per arrivare al magazzino che ho studiato e memorizzato tutto il pomeriggio su Google Maps ed eccolo di fronte a me, l’edificio a cui ho più pensato in questi giorni: è grande e imponente.

Mi avvicino al cancello, come entrare? Ho due possibilità: provare a scavalcarlo o tentare di aprirlo in qualche modo.

Scelgo la prima opzione, sono bravo ad arrampicarmi ed il cancello non è troppo alto, posso entrare senza molti problemi. Dieci minuti e sono dentro, mi sono fatto qualche graffio e una sbucciatura al ginocchio ma nulla di grave.

Entro nel magazzino da un’altra entrata rispetto a quella che avevo attraversato con mio padre, è più piccola e a me sconosciuta ma è già mezza aperta, ho il cuore a mille, mi sembra di vivere in un film di fantascienza, mi perdo nei miei pensieri per qualche minuto rivivendo le emozionanti avventure che ho visto al cinema in un tempo che mi sembra lontanissimo.

Mi riscuoto dai miei pensieri, una porta socchiusa attira la mia attenzione, entro: sembra uno studio, uno di quei posti impolverati pieno di scartoffie.

Con mio padre avevo visto quasi tutto l’edificio ma in questa stanza non mi ci aveva portato. Ben presto capisco il perché, per poco non mi viene un colpo, appeso alla parete c’è un grande quadro con la stessa foto che ho trovato nella mia cantina… almeno su una cosa non mi hanno mentito: questo magazzino era veramente della mia famiglia.

Tutte le carte piene di polvere che prima non ho neanche considerato ora hanno tutta la mia attenzione, comincio a svuotare ogni cassetto e ogni armadio, non so cosa cerco ma sento che presto scoprirò qualcosa.

Le mie sensazioni sono motivate, su una piccola scrivania all’angolo della stanza trovo un foglio, ci sono punti in cui non si legge, è come bagnato di lacrime.

Con fatica comincio a leggere e dopo poco sono sconvolto: mia madre, la stessa che mi ha rimboccato le coperte per tutta la vita, figlia del direttore del laboratorio scientifico, ha condotto una ricerca sviluppando un mostro, il Coronavirus. Lo hanno chiuso per evitare che il virus uscisse. Evidentemente non ci sono riusciti.

Una buona notizia forse c’è: la scienziata che ha provocato una pandemia mondiale ha anche trovato il modo per fermarla. Infatti, proprio quando sto per uscire dalla stanza, un cassetto aperto attira la mia attenzione. Mi avvicino e trovo una provetta contenente un liquido che aveva un colore strano tra il giallo e il marrone. Sulla provetta c’è un’etichetta, con su scritto antidoto. La prendo in mano per osservarla meglio, ma la rimetto subito a posto per paura di farla cadere. All’improvviso sento la vibrazione del mio telefono. Chi potrà mai essere a quest’ora? All’inizio mi sembra un numero sconosciuto, poi guardando meglio mi accorgo che è il numero del telefono di casa. Comincio a sudare, non so se rispondere o meno. Mi convinco che la cosa migliore da fare è rispondere e inventare qualche scusa sulla mia assenza a casa; intanto monto sulla mia bicicletta e comincio a pedalare come un matto per tornare a casa il più velocemente possibile e mi preparo già a sentire i rimproveri da parte dei miei.

Arrivo a casa dopo circa cinque minuti, trovo i miei genitori in pigiama sull’uscio di casa con delle facce sconvolte e preoccupate. Non ho il tempo di dire una parola, che mi ritrovo sommerso dai loro abbracci e dai loro baci. Dicono che mi spiegheranno tutto domani mattina; molto probabilmente sanno dove sono andato e per quale ragione. Vado in camera mia, mi metto il pigiama e in qualche minuto crollo dal sonno sul mio adorato letto.

Sessantesimo giorno

La mattina seguente, appena le prime luci dell’alba si fanno spazio tra le imposte delle finestre, mi sveglio di soprassalto, determinato a scoprire la verità.

Mi precipito in camera dei miei genitori che stanno ancora dormendo, ma decido di svegliarli perché non voglio aspettare oltre. Decidiamo di parlare dell’accaduto davanti a una tazza di caffè e latte fumante. Tutti e tre in cucina, seduti intorno al tavolo: ora è il momento della verità!

Inizia mia madre a raccontare di quando nel suo laboratorio stava dando vita, nel corso delle sue ricerche, ad un nuovo virus; ma qualcosa andò storto… il virus sfuggì al suo controllo e iniziò a infestare gli scienziati che lavoravano nel laboratorio, compresa lei. Il vero problema fu che nessuno degli infettati presentava sintomi evidenti e quindi non si accorsero nell’immediato di essere stati contagiati. Da allora, però, ci furono molte morti sospette e improvvise tra i parenti degli scienziati, compreso mio nonno.

La diagnosi fu semplice influenza, perché il mondo era ancora all’oscuro dell’esistenza del virus. Mia madre, però, si fece venire qualche sospetto e decise di farsi delle analisi sperimentali per capire se il virus fosse attivo dentro di lei. Capì subito che la situazione era grave e quindi si mise immediatamente al lavoro in gran segreto per sviluppare l’antidoto. Studiò per mesi, giorno e notte senza interruzione, ma alla fine raggiunse il risultato: l’antidoto fu scoperto. Decise di testarlo prima su sé stessa e, una volta sicura del risultato, lo iniettò a tutti gli scienziati del laboratorio chiedendo loro di non farne parola con nessuno.

Ma nel frattempo il virus aveva già preso piede nella popolazione e più passava il tempo e più mutava e diventava pericoloso. Fu quindi presa dal panico e aveva grandi dubbi su come risolvere la situazione. Se avesse confessato di aver creato lei il virus poteva essere accusata di tentata strage, ma se avesse taciuto il mondo sarebbe caduto in rovina.

Appena mia madre termina il suo discorso, io senza esitare, la incito a fare la cosa giusta: diffondere l’antidoto e salvare miliardi di vite.

Grazie ad una buona rete di contatti che mia madre si è creata negli anni, è riuscita ad arrivare al direttore dell’OMS a cui ha scritto una lettera anonima, che ha spedito in una busta insieme all’antidoto. Il mondo ha avuto il vaccino per sconfiggere il pericoloso virus.

Sono orgoglioso di ciò che ha fatto mia madre, perché con il suo coraggio ha potuto contribuire alla salvezza di milioni di persone nel mondo.

Ho capito che i miei genitori hanno agito per il meglio e quindi ho perdonato entrambi.

Settantesimo giorno

Sono le 16:30 e mi sto dirigendo verso il parco dove, finalmente, potrò incontrare i miei amici. Mi sono mancati così tanto in questo periodo che quasi non mi riconosco quando, passando davanti alle vetrine dei negozi, sorrido come un bambino di 5 anni. Finalmente, penso tra me e me, posso tornare a passeggiare con gli amici e tornare a vivere la vita che prima mi sembrava banale, ma adesso è un sogno. Arrivato al parco appoggio la bici a una panchina e aspetto seduto. Sono arrivato in anticipo per godermi un po’ da solo questa giornata di sole. Malgrado mi stia un po’ annoiando, mi piace guardare i bambini che giocano sull’altalena, quelli che si rincorrono o calciano un pallone. La cosa più bella però è vedere i loro volti: hanno tutti il sorriso e nei loro occhi si legge la serenità di tornare alla normalità.

Tornando a casa ho pensato così tanto al periodo che abbiamo vissuto e alle notti in bianco, che quasi non andavo a sbattere contro un albero.

Ora, nella mia camera da letto, guardo felice mia madre che sorride mentre sta guardando i grafici della pandemia, notando quasi un totale calo di morti e contagiati.

Dopo il telegiornale spengo la TV, saluto mia madre e mi metto sotto le coperte: finalmente stanotte dormirò senza pensieri.