Perché Apple non aiuta l’FBI?


Qualche anno fa, dopo un attentato terroristico a San Bernardino, in California, il Federal Bureau of Investigation (FBI) americano chiese aiuto ad Apple per sbloccare l’iPhone di uno dei terroristi coinvolti nell’attacco. Recentemente, dopo un attacco ad una base navale americana, la situazione si è ripetuta. In entrambi i casi, la compagnia americana ha rifiutato di decriptare i telefoni perché avrebbe compromesso la sicurezza di tutti gli altri iPhone in circolazione. Vediamo perché.
Nelle impostazioni del cellulare è possibile criptare i dati contenuti nel telefono per evitare che password, foto o informazioni bancarie possano essere estratti da un potenziale ladro. L’algoritmo usato per criptare i dati è così avanzato che non può essere decriptato provando password fino a trovare quella corretta. La migliore stima di tempo per decriptare questo algoritmo è di 4000 miliardi di anni, più dell’aspettativa di vita del Sole. Perciò l’unico modo di accedere ai file sarebbe di avere una cosiddetta “backdoor” o una chiave.
Il problema con una chiave è che può essere usata non solo dai buoni, ma anche dai cattivi. Comparando questa situazione con qualcosa di più concreto, immaginiamo una porta con una serratura. Chi ha la chiave può passarci attraverso normalmente, ma chi non ha una chiave, per entrare deve forzare la serratura o buttare giù la porta. Questa azione può essere compiuta sia da un criminale sia da un poliziotto, ma nel mondo reale, il criminale ha tanti ostacoli al di fuori della porta: telecamere di sicurezza, testimoni etc.
Tornando al mondo virtuale, al momento, questa porta non può essere forzata, però, se implementassimo una vulnerabilità che può essere usata solo dalle forze dell’ordine, essa, anche se custodita dalle persone più fidate, sarà inevitabilmente sfruttata da criminali che, stavolta, non hanno i limiti fisici del mondo esterno, essendo protetti dall’anonimità del mondo virtuale. Questa è una questione molto sensibile che dovrà essere lungamente discussa prima di arrivare ad una soluzione.

Nicolas Butzbach, 3C Classico Cambridge 2.0 – liceo G.B. Vico Napoli