A porte chiuse  – Racconto

 

 

Qual è il suono dei ricordi?

I miei ricordi hanno il rumore del respiro affannoso, del battito accelerato, del cuore che palpita, che rimbomba nella bocca dello stomaco, che pulsa sulle mani, nelle gambe. È nei fremiti dell’ansia che ti assale e in quel soffio che faccio per cacciarla via, fuori.

«Respira… respira, lentamente. Va tutto bene…va tutto bene».

No! Non posso, non voglio chiudere gli occhi. Devo solo pensare a respirare… a fare dei lunghi respiri. Profondi..

Quella notte mi sono svegliata di soprassalto, era stata una giornata difficile, avevo gli occhi gonfi di pianto da quel pomeriggio, sentivo un vuoto incolmabile dentro anche se il vero vuoto lo avrei percepito all’alba, dopo quella notte. La porta di casa sbattuta violentemente, i passi pesanti nel corridoio, una voce alterata, impastata di rabbia. Non ho avuto neppure il tempo di alzarmi. Sono stata travolta dalle urla, dal rumore degli oggetti scagliati contro muri, dei vetri rotti, del mio comodino caduto pesantemente nella colluttazione, tra la concitazione di quei momenti, tra gli spintoni, i gemiti. Non era una novità, tutto si ripeteva notte e giorno nella mia vita, mi ero quasi abituata a quel ronzio incessante di parole, di frasi alterate e ripetitive ma quella sera, quella notte, quel giorno ha rappresentato per me un vortice di tutte le mie sofferenze, angosce e tormenti che mi giravano intorno ininterrottamente. Era l’incubo, vero, era tutto vero e tetro come il buio nella mia stanza. L’incubo che, quando ero piccola, aveva come protagonista quell’«uomo nero», così lo chiamavo, che mi stava vicino durante la notte: da lui scappavo e andavo a rifugiarmi tra le tue braccia, e pensare che dopo saresti diventato tu il mio uomo nero, il protagonista dei miei incubi, ma allora non potevo saperlo, ero troppo piccola e incosciente. Ci siamo difese in ogni modo possibile da quella furia, da quelle braccia che avrebbero dovuto sorreggermi, proteggermi, sempre, ho cercato di difendermi, di mettermi letteralmente in mezzo e proteggere dai colpi la mia unica salvezza. Strattonata mentre cercavo di salvare il mio computer, sbattuta contro l’anta dell’armadio, insieme alla leggerezza dei miei quattordici anni, l’età in cui il dolore provato per la prima delusione d’amore ti sembra insopportabile: quella è l’età della spensieratezza, delle risate, dei primi amori e delle prime sofferenze e io avrei tanto voluto viverli quei momenti, con calma, normalmente, appoggiandomi e seguendo i consigli dei miei genitori, ma no! Troppo facile, troppo perfetto, dovevo invece affrontare un carico di responsabilità che una ragazza di quattordici anni non avrebbe mai immaginato. Spazzata via, come i libri sulla mia scrivania, i quaderni, i fogli, come tutte le cose che amavo da un’ondata di violenza cieca ed inspiegabile. Ancora oggi non so dove abbia trovato la forza e la lucidità di reagire e chiedere aiuto, non mi spiego il mio coraggio, il mio desiderio di farla finita, eppure ho provato quelle sensazioni, avevo paura che tutto potesse finire in un attimo, che potesse scorrere davanti ai miei occhi tutti i momenti della mia vita, c’è stato un momento in cui ne ero quasi certa, distesa sul tappeto non avevo la forza di rialzarmi, di urlare ancora. Forse è stata la paura e la consapevolezza che non c’era più tempo. Forse l’istinto di sopravvivenza. Sono riuscita a dire solo poche parole… non il mio nome, solo l’indirizzo. «Aiuto per favore!» Con le lacrime agli occhi, il fiatone e la bocca che sanguinava. E poi quei minuti interminabili, l’attesa, l’ansia, la scarica di adrenalina, i fremiti. Ricordo il suono del campanello e i passi di corsa sulle scale. Quella notte – lo ammetto – sono stata impassibile, con gli occhi sgranati aspettavo il suono della sirena che sempre più velocemente si avvicinava. Era una emergenza, «Emergenza fateci salire!» E io sprofondavo sempre di più, nascondevo la mia paura con gesti fermi e decisi. Ero reattiva, nemmeno una lacrima.

«Non sei più mia figlia!»: ho sentito questa frase uscire da quella bocca, mentre scendevo le scale e uscivo dalla mia casa…

E poi le voci e le domande, gli interrogatori fatti rigorosamente a porte chiuse, i visi e quelle espressioni di circostanza, i sorrisetti che si fanno ai bambini per tranquillizzarli, gli sguardi di commiserazione.
«Io non sono una bambina. So esattamente quello che è successo».

Avverto ancora l’insofferenza, il senso di oppressione provati per gli squilli dei cellulari che interrompevano il mio racconto, e la porta degli uffici che si apriva e si richiudeva facendomi sobbalzare ogni volta, il via vai di gente.

«Devo rimanere concentrata. Non posso crollare. Devo sbrigarmi. Voglio uscire di qui»
I miei ricordi trascritti nei referti medici e nei verbali , messi nero su bianco, chiusi dentro ai fascicoli, salvati su pc nelle cartelle delle denuncie del tribunale dei minori.

Domande sui fatti, sui comportamenti altrui che non riuscivo a spiegare e a raccontare, domande senza profondità, senza sentimento ma d’altronde cosa potevo aspettarmi? Quello era semplicemente il loro lavoro e io dovevo limitarmi a fare un riassunto chiaro e dettagliato, come se veramente si potesse trovare il senso di quello che era successo.

Nessuno che mi abbia mai chiesto che cosa era accaduto dentro di me, quella notte. Nessuno che si fosse preoccupato di domandarmi cosa ne avrei fatto di quei ricordi, come li avrei gestiti, per andare avanti. Certamente non li avrei mai chiusi in quei fascicoli, li avrei tenuti sempre liberi di accompagnarmi sempre per le strade, mentre cammino. Avevo l’esame a cui pensare, le mie tesine da finire e il saggio di danza, le prove, gli spettacoli. Avevo i miei quattordici anni da vivere e un buco nero dove non sprofondare. Allora per proteggermi li ho chiusi nelle ‘stanze’ della mia memoria: «vietato l’ accesso ai non addetti». Li ho sepolti tra le cose da fare, tra gli impegni, la scuola, lo studio, i corsi. Tutto il mio tempo organizzato, programmato per non pensare e per sperare di riuscire a crollare di stanchezza la sera, perché c’era la notte da affrontare. Dovevo riuscire a dormire in quella stanza, dovevo addormentarmi su quel letto davanti a quell’armadio insieme ai rumori e ai frastuoni che richiamavano quella notte e la tua voce. I miei ricordi nascosti agli altri che mi avrebbero guardato in modo diverso se avessero saputo. Sono andata avanti così, portandomi dentro il senso di frenesia, di insoddisfazione, di inadeguatezza e la sensazione di non riuscire a trovare mai pace. Non avrei mai pensato di arrivare al punto di sentire la necessità di lasciarli liberi, di tirarli fuori questi pesantissimi ricordi . Voglio dimostrare soprattutto a me stessa che è possibile vincere la paura dell’imperfezione, che si può rompere la finzione della perfezione, quella che comanda i comportamenti e gli atteggiamenti di quanti vogliono far credere che tutto vada secondo le regole della normalità, per la vergogna, per la paura di essere giudicati. La mia vita non è come avrei voluto che fosse. La mia vita è cambiata, io sono cambiata dopo quella notte. Devo finalmente ammettere a me stessa che ho avuto il coraggio di rivelare di essere stata, di non essere stata, di essere cambiata, di non lasciarmi vincere da quei sentimenti che mi tenevano bloccata. Ero ancorata all’ immagine che volevo restituire agli altri, ai sentimenti che ti impediscono di accettare la realtà, ai sensi di colpa per aver scelto di salvare la mia vita. Il mio istinto ha cambiato la vita di chi avrebbe dovuto essere un punto di riferimento, una delle persone più importanti. Mio padre non è sempre stato così, i sentimenti che ho provato per lui prima che si ammalasse, non li ho dimenticati, sono sempre dentro di me così come le immagini degli anni sereni. Ogni notte bussano alla mia porta insieme ai ricordi di quella notte… e mi assillano, mi tormentano il cuore ogni volta che il mio pensiero gli apre la porta.

 

 

Rachele Nigi

Classe 3G – Liceo Classico Galileo di Firenze