Fegato – Racconto

È una data particolare il solstizio d’inverno, un giorno di passaggio da una stagione clemente a una buia e fredda. Una stagione in cui devi lottare contro le intemperie per sopravvivere. Ma oggi è sorprendentemente soleggiato. L’aria tersa è inumidita dall’Olona, che scorre vicino a casa di Fabio. Come ogni mattina lui si alza, si lava la faccia con acqua gelida e si guarda di sfuggita allo specchio: non ha tempo di pensare, anche per lui oggi è un giorno di passaggio. Il silenzio gli fa compagnia stamattina come sempre, insieme agli spifferi della finestra a cui è appoggiato. Da lì vede i palazzi scrostati dall’altra parte della strada, gli ultimi festaioli del quartiere che rientrano a mattino inoltrato, e una nuvola solitaria oscura questo paesaggio desolato. Forse il buio si addice di più a Fabio. Si infila in fretta il giubbotto e si incammina verso il suo obiettivo.

Fabio è un ragazzo di strada. Un bastardello che vive alla giornata, protetto e rinchiuso dai palazzi che lo sovrastano. Non crede di essere strano, anche se tutti lo guardano male: spacciatore, cane sciolto, criminale sono solo alcuni degli insulti che la gente “normale” gli sputa addosso ogni giorno. Sa di essere diverso, vuole essere diverso. Non vuole essere il classico italiano medio destinato a vivere una vita che non vuole. Lui aveva scelto la strada molto tempo prima, e non è mai stato tipo da tornare sui propri passi. È uno che preferisce il concreto all’astratto, l’ignoto allo scontato, il ghigno al sorriso. È uno spavaldo figlio di nessuno che mangia asfalto e sputa sentenze. Ma in un piccolo spazio del suo cervello si annida un pensiero di cui non è ancora cosciente.

Il suono ritmico che proviene dalla tasca interna del giubbotto lo riporta al presente: un passo, un tintinnio, un passo, un tintinnio. Chiunque di solito associa questo suono al mazzo di chiavi che porta con sé, ma per lui non è così. Dove vive lui è più frequente avere in tasca delle pallottole che delle chiavi. Fabio allunga il passo, la pistola sbatte sempre più invadente contro le sue costole e gli dà la sicurezza che solo un’arma può dare. Il viale opprime il ragazzo abituato a spazi cupi e palazzoni fatiscenti. Decide di svoltare dentro a un vicolo, con uno scatto quasi nevrotico. Le mani tremano, lo stomaco è in subbuglio, ma Fabio non capisce perché. Gli rimbombano ancora in testa i colpi che lo hanno mancato di poco la sera prima: è molto bravo nel lavoro che fa, e per questo oltre alla sua abilità è richiesta anche la sua testa. Ma lui sa come muoversi, e ora che si trova nel buio umido del vicolo riesce a riprendere il controllo sulla paura e a uscire in strada. Viale Famagosta lo abbaglia, il tempo incalza. La Barona è la sua zona, e conosce ogni centimetro di ogni marciapiede. Fabio ha un compito oggi: Vito. I due giovani vagabondi si conoscono da sempre e sanno di essere simili, senza scrupoli né codice morale, in un quartiere dove mangi o vieni mangiato.

Fabio lo nota da lontano, riconosce l’antivento nero che vede spesso vagare fra le palazzine e infila la mano in tasca. Il sudore gli scorre sulle tempie e le gambe non gli garantiscono il solito passo spavaldo mentre stringe l’impugnatura della Glock. Vito non è il solito bersaglio, eppure Fabio sa che una volta a terra il suo corpo non sarà diverso da quello degli altri. Fabio non è un assassino, ma il business che ha intrapreso non tollera mancanze di rispetto, la colpa di cui si è macchiato Vito. Mancano poche decine di passi al suo obiettivo, girato di spalle, e le erbacce sul marciapiede sembrano già fiori del camposanto. La prassi è semplice: cappuccio in testa, un colpo secco per non avere tempo di tirarsi indietro e un altro per calare il sipario, poi via disinvolto camminando a piccoli passi. Così gli aveva spiegato un suo ex compagno di cella, sicario esperto. “Non è facile, ci vuole fegato…” aveva aggiunto con una punta di malinconia. Il momento sta arrivando, passo dopo passo la camminata si fa più frenetica e il tempo si dilata. La mano adesso è ferma, la Glock è carica, i colpi sono esplosi. Proprio come nei film, il sangue macchia l’asfalto scuro e riflette l’espressione incredula di Vito. Fabio stesso è sconvolto, ma il lavoro adesso è compiuto. Prima di accorgersene è di nuovo nel vicolo preda del tremore e della nausea, e sente nuovamente degli spari. Stavolta però non sono nella sua testa, ma sono tanto reali quanto quelli che hanno ucciso il suo rivale.

Sente un bruciore lancinante allo sterno e si chiede se possa davvero finire così. Ma quando si tasta il petto non sente ferite: l’asma gli ha giocato l’ennesimo brutto scherzo, gli ha fatto gelare il sangue nelle vene. Un urlo che proviene dalle parti di Via Ovada, qualche isolato più in là, lo tranquillizza: per stavolta è davvero al sicuro.

I palazzi stanno cominciando a scurirsi quando Fabio torna a casa, nell‘appartamento spoglio in un condominio muto. Il tetto è il suo posto preferito: lì si sente come Tony Montana, vede tutto il mondo sotto di sé come se fosse il suo regno, il sogno sembra realtà. Però non era sempre stato così. Da piccolo sperava di diventare un pompiere, un’ambizione tanto banale quanto nobile. Purtroppo i sogni cambiano col tempo, con le difficoltà, con la solitudine e con l’emarginazione. Oggi Fabio ha imboccato una nuova strada. Forse la scelta non è la migliore, per riscattarsi non c’è più tempo: adesso dovrà andare fino in fondo, dovrà raggiungere la cima.

Il Potere lo aspetta.

 

 

Emanuele Partiseti

Classe 4F – Liceo Classico “Galileo” di Firenze