I mostri dell’animo umano – Racconto

Quando ero piccola, come penso sarà capitato un po’ a tutti noi, mi capitava di svegliarmi durante la notte, per paura che uno spaventoso mostro potesse fuoriuscire dalle lande del mio armadio. Tutte le volte che mi alzavo dal letto però questo mostro, ovviamente, non c’era mai. Me lo dipingevo comunque nella mia testa, immaginavo un enorme orso dalla folta peluria, che forse non aveva nemmeno le sembianze di un vero e proprio orso, perché lo vedevo anche con dei tratti da serpente. Vedevo una sorta di mostruoso orso dalla coda di serpente, insomma un essere abbastanza raccapricciante. Quando sono diventata abbastanza matura per comprendere che non esiste e mai ci sarà nessun mostro dentro il mio armadio, ho come scordato questo essere immaginario, tanto che la sua immagine era stata completamente annebbiata dalla mia mente. Pensavo di averlo scordato ormai completamente quando, qualche anno fa, mi parve di vederlo dipinto in un quadro che mi lasciò senza fiato. Non era un vero e proprio dipinto, ci tengo a sottolinearlo, ma si trattava di più tavole disposte su quattro pareti, che andavano a costituire un ciclo continuo. Mi trovavo a Vienna, nel palazzo della Secessione. Mi ricordo che si trattava di un’opera così complessa e anomala che mi ci volle qualche minuto per ragionare su cosa potesse significare. Ora per descriverlo sto chiudendo gli occhi, per ricordarlo al meglio, tanto ce l’ho come scolpito nella mente. Entro nella stanza e di fronte a me si erge una tavola dove per prima cosa vedo il mostro che temevo la notte da bambina. Questo “mostro” in realtà è il gigante Tifeo, accompagnato dalle sue figlie, le tre Gorgoni, sormontate dalle figure di donne scheletriche. A prima vista questa immagine mi sembrò raccapricciante, ma solo perché non ne avevo compreso il significato, e soprattutto non stavo leggendo l’opera nel giusto ordine. Allora mi girai dalla parte opposta, e con quella terrificante immagine alle spalle, mi soffermai su quello che doveva essere la prima tela del fregio. Vidi una serie di angeli fluttuanti, che accompagnano il mio occhio verso la seconda scena, un’immagine meno angelica: vedo un soldato che tiene in mano una gigantesca spada. Ciò che mi colpisce di lui è l’armatura completamente dorata, che risplende e cattura l’occhio dell’osservatore. Il cavaliere però non è solo, ma è accompagnato da delle figure femminili (che poi scoprii essere figure allegoriche della compassione e dell’orgoglio). La scena che seguiva era quella che vidi per prima, e che all’inizio mi lasciò un po’ stremata. Ma dopo aver visto la figura del cavaliere armato capii, e capii che quell’uomo, con le sue forze,  o con l’ausilio della ragione, avrebbe dovuto e saputo affrontare quello che per me era “il mostro”. In realtà guardando meglio questa terza tela mi resi conto di immagini che così a prima vista non avevo notato, quali le numerose figure femminili. C’erano le tre gorgoni, che fin dall’inizio avevo notato, che probabilmente, rese seducenti dai loro capelli fluenti, quasi somiglianti a dei serpenti, simboleggiavano la tentazione. Quindi il cavaliere non doveva solo superare il gigante ma anche resistere alla tentazione. C’erano poi altre donne, alcune, quelle dalla corporatura scheletrica, che simboleggiavano la Malattia, la Pazzia e la Morte. E ancora altre tre, rispettivamente simboli di Lussuria, Impudicizia e Intemperanza. Poi, un po’ più in disparte giaceva una figura molto magra, che mi sembrava fosse l’immagine del Dolore struggente. Riguardandolo con attenzione, anche la figura del mostro, Tifeo, non era così angosciante, forse per i suoi occhi formati da due grandi perle, che era difficile non notare. Superato l’ostacolo arriva la parte che forse preferisco: su uno sfondo completamente bianco, si stagliano degli angeli fluttuanti che avevo visto già dalla prima tela, e una donna vestita da una toga dorata con in mano una lira. Era la Poesia, disciplina fondamentale che aveva il potere di addolcire l’anima e alleggerirla dai suoi fardelli, la salvezza del genere umano. Poi un’altra serie di tre donne, rappresentanti le Arti, conducono alla scena principale: un uomo e una donna, circondati da una fitta selva di alberi dorati, si abbracciano intensamente e si abbandonano a un dolce e affettuoso bacio, che non si intravede perché le due figure sono di spalle ma che si percepisce dai modi e dai corpi.

Quando realizzai la grandezza di contenuti di quest’opera la trovai rivoluzionaria, soprattutto per l’epoca in cui fu realizzata. Si tratta infatti del Fregio di Beethoven di Gustav Klimt e fu realizzata agli inizi del Novecento, in un periodo storico nel quale agli artisti non era permessa grande libertà di espressione. Avere il coraggio di dipingere un’opera che andasse oltre i valori religiosi e che vedesse nell’amore e nella poesia il raggiungimento della felicità umana mi sembrò un atto rivoluzionario. Mentre mi trovavo lì, in quella stanza, di fronte all’immagine evocativa della felicità raggiunta, dopo aver superato innumerevoli fatiche, mi fece capire ciò che da bambina non avevo mai compreso. L’uomo ha sempre cercato, per sua ragion d’essere, per indole, o anche per puro istinto di sopravvivenza, un modo per sconfiggere le proprie paure. Mi resi conto che per oltrepassare l’ostacolo della paura, per ottenere la felicità il genere umano, nel corso della storia ha sempre cercato altri mezzi, strumenti per alleviare in qualche modo l’ansia quotidiana, per rendere la nostra esistenza più leggera e gioiosa. Oltre a farmi comprendere come in un modo o nell’altro tutti riusciamo a liberarci della continua paura che una creatura maligna sia nascosta dentro il nostro armadio, o dietro gli stipiti delle nostre porte, quell’opera mi fece comprendere ciò che finora forse non avevo mai realizzato appieno. Riguardai un attimo la tela bianca sulla quale era raffigurata la dea della Poesia, intenta nel suonare la sua lira. Quell’immagine mi rassicurava ogni volta che alzavo la testa per guardarla ancora un’altra volta. Erano quindi le arti, la poesia l’unico aiuto per sfuggire alla fugacità della vita, per vincere le nostre paure, o almeno, le mie paure… Capii quindi che era la scrittura, l’arte della parola, il mio unico antidoto alla paura, e la mia sola chiave alla porta immensa della felicità.

 

 

Emma Boschi

Classe 4G – Liceo Classico Galileo di Firenze