La memoria dentro – Racconto

Il giorno in cui scoprirono che la zia Betta era davvero malata di Alzheimer, tirai un sospiro di sollievo.

Finalmente quel dramma aveva un nome, la gente poteva far girare la notizia a destra e a manca.

Non so perché, ma sembra che dare un nome alle cose sia in grado di gettarci nel terrore e al contempo rassicurarci incredibilmente.

Perlomeno, a quel punto, se ne poteva parlare con tutti ed essere capiti, ed era l’unica, misera, consolazione. Condividere le disgrazie, piccole o grandi, solitamente ci riesce davvero bene.

Arrivavano di continuo chiamate a casa, di gente preoccupata e che diceva un po’ le solite cose. Insomma, per gli altri la zia Betta era Elisabetta N., ex professoressa ordinaria di Lettere, “donna di una cultura eccezionale che continuava a dare un gran contributo all’università” eccetera. Su questo, tuttavia, non si sbagliavano.

Anche i miei genitori erano ripetitivi: “Una disgrazia, ormai è fuori di sé, le cure non bastano…”

Io avrei voluto dir loro che non era fuori di sé, ma semmai fuori da noi. Per il resto era sempre più dentro di sé. Certe espressioni degli adulti ancora non le capisco.

Comunque mi convinsi che non si trattasse di una demenza degenerativa, o come diavolo la chiamavano, dato che mi sembrava una definizione quasi offensiva, ma semplicemente che, con tutti i libri che aveva letto, alla zia non restasse più spazio in testa e dovesse “cancellare” altri dati, compresi i nostri nomi o, alla peggio, i nostri volti.

 

Un giorno che l’andai a trovare quando era ancora a casa sua, lei mi accolse con un sorriso, dicendo poco o niente, e mi iniziò a raccontare una favola di Esopo, forse ricordandosi di quanto mi piacesse (anche se a quel tempo la sua memoria già vacillava). Era talmente presa dal racconto e dalla cioccolata calda che stava preparando che per un po’ neanche badò a me, come se in cucina fosse rimasta solo lei. Io continuavo ad ascoltarla, finché, messa la tazza fumante sul tavolo, non interruppe bruscamente la narrazione, proprio sul più bello, e mi guardò con aria sconvolta. Sgranò gli occhi come se avesse visto un fantasma, o come se mi fossi materializzato lì all’improvviso, e rimase qualche secondo interdetta. Io la osservai in attesa che dicesse qualcosa. Infine mi chiese garbatamente, ma con fermezza, che ci facessi lì, come mi chiamassi e dove fossero i miei genitori.

Per non sbottare presi un sorso di cioccolata, che era più salata che dolce, quindi la lasciai lì.

I miei genitori, le risposi semplicemente, erano nel salotto accanto e, aggiunsi, me ne stavo giusto per andare. Non parve dispiaciuta delle mie parole, e mi accompagnò alla porta, con gli sguardi puntati dei miei genitori ormai sconsolati.

Lo ammetto, me l’ero presa a male. Nei giorni dopo però ci ripensai, e mi dissi che avrei dovuto fingere, stare al “gioco”, e anzi ringraziare il cielo che non mi aveva scacciato in malo modo.

Poco tempo dopo, comunque, la portarono all’ospedale, e i timori di tutti furono confermati.

 

Aleggiava, in famiglia, un’aria di perenne tensione.

Mia madre era sempre nervosa e aveva ripreso a fumare, almeno cinque o sei cicche al giorno. Ogni sera gliene sfilavo di nascosto una o due dal pacchetto, che avevo scoperto dove teneva, e le gettavo via, ma quando mi accorsi che ciò serviva solo a farla andare più spesso dal tabaccaio, smisi.

Faticai a trovare delle scusanti per tutti: il loro repentino cambio di atteggiamento me lo spiegavo solo come una fuga, una fuga da loro stessi, dalla mente, per non pensare.

La zia Betta era riuscita a fuggire da tutti noi e forse un po’ la invidiavano per essere così lontana.

Era solamente sola dentro di sé.

O forse c’era poco da invidiare. D’altronde era anche prigioniera di se stessa.

A volte anch’io mi sentivo così, come dentro una gabbia, e cercavo in qualche modo di uscire, almeno momentaneamente, dalla mia interiorità, ma caspita se era difficile…

Forse tutti si sentono in questo modo, almeno ad un certo punto nella vita. A me sembriamo tutti impegnati in una continua fuga.

Ricordo ancora l’episodio che mi raccontò la zia di un tale Catone, un tipo che si uccise dopo aver letto che l’anima continua a vivere dopo la morte, e si era convinto che avrebbe trovato la libertà.

Io pensai che fosse un po’ un idiota, e soprattutto un codardo, perché non puoi scappare così da te stesso. E poi che ne sai di che ti succede dopo?

Al contempo non lo biasimai troppo, per lo stesso discorso della fuga continua.

Anzi, iniziò quasi a farmi un po’ pena. Spero che abbia trovato una sorta di libertà, o sa Dio cosa.

 

Da quando trasferirono la zia Betta nella casa di cura, andammo sempre a trovarla lì.

Nei momenti che i dottori definivano di “lucidità” ci riconosceva, altrimenti era più difficile.

Tutto il giorno faceva poco o niente, e i libri, che erano sempre stati fondamentali per lei, ora non esistevano più nella sua vita.

Uno dei primi giorni le portai la vecchia matrioska che un tempo teneva sul tavolo in salotto. Non pretendevo che si ricordasse che le appartenesse, ma speravo che potesse divertirla un po’.

All’inizio non la considerò molto, e stavo quasi per andarmene e portarla via. Sì, mi indispettivo facilmente.

Poi però decisi di iniziare a smontarla io, finché non mi rimase che la statuetta più piccola, e gliela porsi. Lei se la rigirò un po’ tra le mani e parve quasi apprezzare. Forse ci si rivedeva. Aveva come attraversato e superato tanti strati della sua mente, per arrivare ad un nucleo, lontano da noi, che invece galleggiavamo ancora in superficie.

Speravo che avrebbe voluto giocare ancora un po’ con la matrioska, ma non fu così.

La volta dopo puntai allora sulla musica. Le portai il CD di De André, uno dei suoi preferiti. Me l’aveva fatto sentire tante di quelle volte che magari anche lei se lo ricordava.

Quando partì ‘Amico fragile’ le si illuminò lo sguardo. Quella canzone non l’avevo mai capita; mi sembrava un sogno, e non di facile interpretazione. Però a lei piaceva tanto, e iniziò a canticchiarne la melodia.

Da quel giorno le portai ogni volta un CD diverso, e mi parve che la facesse contenta. Quelle note risvegliavano qualcosa in lei, sollecitavano la piccola matrioska in cui si era incarnata.

Stava quasi sempre sdraiata sul letto, e io non mi avvicinavo mai troppo, per timore di spaventarla.

Sapevo che non aveva più idea di chi fossi, ma riconosceva la musica, e quello bastava.

Molti anni più tardi avrei letto una frase che dice che nella musica si manifesta l’invariabilità del carattere. Già a quel tempo iniziavo a capire che le arti sono le uniche vie di fuga che ci rimangono. Però son tutti vicoli ciechi. Strade che ci allontanano dal mondo di fuori per immergerci all’interno di noi stessi. Vista così, sembra più un’eterna trappola che altro, ma ciononostante, non molto tempo dopo, mi ci gettai anch’io.

 

Ad un certo punto la zia Betta iniziò a respingerci più spesso; non voleva neanche più la musica.

Mi dissero che ormai stava molto male, ed era in “fase terminale”, quindi mi vietarono di andarla a trovare, e io mi ascoltavo i suoi CD in solitudine.

Mi sentivo schifosamente impotente, e iniziai ad accumulare una rabbia incredibile che non sapevo come sfogare.

Una sera che stavo peggio del solito, ascoltando il primo album di Guccini, pescato dall’inesauribile raccolta musicale della zia, mi prese un forte impulso, per cui sgattaiolai fuori di casa, portandomi la matrioska più piccola in tasca. Giunsi alle sponde del ruscello poco distante, la tirai fuori, e la gettai in lacrime nell’acqua.

Pochi giorni dopo ci fu il funerale della zia.

A salvarmi fu la vecchia chitarra di mio fratello, che non la usava ormai da anni. Diventò la via di fuga di cui ho parlato prima. Mi sembrava, suonando, di allontanarmi da tutto lo schifo di fuori per attraversare quei “litri e litri di corallo”, proprio come in quella canzone di De André, ed immergermi in altri fondali.

Decisi che l’unico modo per tenere in vita la zia fosse dentro di me, nelle corde della chitarra, e nella matrioska incompleta che conservavo sul comodino.

Le riservai quindi uno spazio nella mia interiorità. In fondo, lo feci anche per me.

E ancora oggi, a distanza di anni, conservo intatto il suo ricordo, e di frequente lo rispolvero, con un CD, suonando qualche pezzo, oppure osservando le acque del ruscello che scorrono inesorabili, forse inconsapevoli di sussurrarmi ancora frammenti di lei.

 

Sofia Ventura / Liceo Classico Galileo di Firenze, classe 4E